Ruggine

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Si può morire e far morire d’amor_1 Valutazione 4 stelle su cinque

di Paolo Castellani


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lunedì 12 settembre 2011

Per chi è reduce delle pagine del libro di Massaron, più che ridotto, il film comunica in principio una sensazione di straniamento, di disagio, propriamente narrativo. Sembra affiorare qualcosa di “sbagliato”. Si intuiscono solamente, quasi impercettibili, i contatti fra i personaggi adulti e i bambini, i tre protagonisti di una vicenda di violenza che segnerà per sempre le loro reciproche esistenze. Solo l’ex capo della banda degli Alveari, Carmine, viene chiamato per nome (il suo personaggio, da adulto, viene creato dallo script: il libro non ne parla) da alcuni avventori di un bar malmesso di periferia. C’è anche Cinzia, con un altro cognome, ma sembra precipitata lì, in un consiglio di classe (la si aspettava in una redazione), da un altro mondo. E Sandro gioca sempre con un suo figlio. Non fa altro, per la parte che gli spetta. E i figli, si sa, non chiamano il padre per nome.
Rievoco il bel libro di Massaron perché credo che il lavoro di riscrittura del soggetto per Ruggine sia stato proprio il compito più difficile, il più coraggioso e, probabilmente, il più riuscito.
Gaglianone non imbocca la strada facile del racconto lineare, sorretto dai flash-back dei protagonisti diventati grandi. Sì, c’è naturalmente il continuo rimando e alternarsi di presente-passato, ma i tratti narrativi che li uniscono sembrano sfumati, evanescenti, a volte inafferrabili. Non interessava al regista-autore la vicenda per i suoi dettagli descrittivi, la coerenza narrativa, la storia piccola, orizzontale, il “chi erano” e il “com’è andata a finire”. Sceglie, di quella terribile vicenda, il cuore e le sue tenebre – una banda di ragazzini figli di immigrati dal Sud nella periferia-alveare di una città del Nord, sradicati, senza neppure una lingua codificabile, giocano alla guerra contro i dirimpettai di casermoni, stando arroccati nei meandri arrugginiti e angoscianti di un castello-rudere post industriale, e si trovano a dover fronteggiare l’uomo nero, il drago che li vuole mangiare, nei panni azzimati e autorevoli di un medico davvero troppo “amorevole” – cattura lo spirito di fondo della fiaba, nerissima, e dà un senso ancora più pieno e “storico”, psicologico alla ruggine evocativa del titolo. Cioè quello che rimane nella vita, nelle macerie interiori, nei cuori delle piccole vittime quando si ritrovano nel mondo dei grandi, adulti tra adulti.
C’è tutto, dunque, c’è molto di più, ma la materia viene rivista, riplasmata, riconsiderata con occhi diversi, come nell’incubo di un testimone oculare degli eventi. Gaglianone si fida (e si affida) solo della sensazione, sua e degli spettatori, accantona altri registri, altre inclinazioni, non rispetta codici di divulgazione. Si fida delle suggestioni e le usa per raccontare il male. Inutile e stupido, come ha fatto certa critica, paragonare questo film, certamente ostico, soffocante, ad omologhi americani (per il tema di fondo, per esempio Mystic river), perché è come far nuotare nella stessa acqua pesci di fiume e di mare, come ascoltare una poesia o una favola e poi vivisezionarla secondo i criteri del racconto (verosimiglianza e riconoscibilità di luoghi e persone, rispetto dei tempi, dei nessi di causa-effetto nei passaggi tra i blocchi di sceneggiatura).
No. Gaglianone per ogni singola inquadratura cerca la rappresentazione della tragedia nella memoria che ha lasciato, nelle tracce, nella ruggine. La ruggine è il colore che resta nell’aria e nella materia, la traccia di chi è passato a macchiare, a insozzare, a distruggere una volta per sempre. Sono color ruggine i ricordi di quella maledetta estate per i bambini che non vedevano altro che carcasse d’auto ed elettrodomestici abbandonati. Ruggine è il colore dell’aria che respiravano nei loro nascondigli. Ruggine è il sangue rappreso, come quello che ricopriva i piccoli corpi delle loro amichette violentate e brutalizzate dalla smania delirante del dottor Boldrini. Sa di ruggine il motore emotivo del suo film, la ruggine è quel che è rimasto di quel tempo (Cinzia viene spesso inquadrata di spalle, con la macchina a indugiare sulla nuca, come a volerne carpire la memoria nell’attimo stesso in cui si produce; così gli occhi di Sandro che gioca col figlio sembrano sempre vedere altro; mentre la logorrea di Carmine appare sospesa, a lasciar cadere il risolutivo “coppole di minchia”, espressione identificativa del Carmine capobanda degli Alveari, che spiega ogni cosa detta e non detta) nella memoria dei protagonisti.
L’atmosfera del film è essenziale, perché costringe a non perdersi dietro dettagli insignificanti, ma a vivere dentro l’angoscia; il registro è surreale, la realtà che ci scorre davanti a tratti sembra illogica (ma cosa fanno quei bambini sopra i tetti delle carcasse d’auto roventi?), i tempi sembrano a volte rarefarsi (il gioco infinito ed estenuante di Sandro con il figlio, il monologo sociopatico di Carmine contro la società ingiusta dei ricchi, la formalità convenzionale dei colleghi di Cinzia sul rendimento scolastico e, soprattutto, sulla vita familiare dei bambini esaminati) e ogni momento ritrova senso solo alla fine ma anche nel momento in cui accade, senza necessari legami con le sequenze cui si lega.
(...) continua

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