Pandemia

Bastano pochissime parole, dialoghi ridotti all’osso e tanto lavoro di macchina a Lucio Fiorentino per restituire al pubblico quel sentimento di angoscia e di vuoto partorito dalla sua mente in cinque giorni di meditazione in Cilento. Il pubblico arriva a compatire i protagonisti, saggia la loro paura in uno scenario apocalittico. “Pandemia” è l’opera prima del regista partenopeo che ha alle spalle una laurea in economia, tanti corti e documentari. Una prima sfida per Fiorentino superata brillantemente grazie ad un mix vincente. La storia è forte, una sceneggiatura a metà tra un disaster ed un road movie dall’eco statunitense. Al centro dell’azione c’è Arno (Marco Foschi) che torna a casa, in una piccola comunità dove tutto sembra abbandonato. Qui vivono i suoi genitori, la giovane Lidia (Alice Palazzi) e suo nonno Simone. Attorno a loro deve essere successo qualcosa di enorme, terribile. Si parla di un’epidemia arrivata con la pioggia. La situazione è tragica. Per acquistare cibo, sigarette e vino si torna al baratto. Per lavare i piatti si utilizza la cenere. La madre (Veronica De Laurentiis) è costretta a prostituirsi pur di ottenere la morfina che serve al marito (Massimo Foschi). Arno si era arruolato nelle squadre di soccorso, un gruppo di volontari che però ben presto divenne una schiera di manigoldi, sciacalli. Ben presto scopre l’atmosfera di decadenza che attanaglia tutto e decide di ripartire. Armato di fucile, qualche riserva d’acqua e poche scatolette di cibo, il protagonista decide di tornare in quei luoghi dove aveva assistito a tante barbarie. Ad accompagnarlo c’è Lidia ed un diario. In quel diario c’erano annotati gli ultimi giorni di vita di una donna seviziata e poi uccisa proprio dalla sua banda. Quelle righe gli martelleranno il cervello (grazie all’espediente della voce narrante di Raffaella Pontarelli)e caratterizzeranno il suo viaggio verso la catarsi. Promossa la recitazione. Giusta la scelta di attori maschili dalla voce baritonale. Notevole la mimica ed i tempi di Marco Foschi, prezioso l’apporto di Veronica De Laurentiis, figlia del produttore Dino De Laurentiis e dell’attrice Silvana Mangano, per la prima volta impegnata in un progetto italiano ma già nota all’estero. Punto d’orgoglio per il regista è il cammeo di Hanna Schygulla attrice che ha incontrato nella sua carriera le cineprese di Fassbinder, Scola, Godard e Branagh solo per citarne alcuni. Fiorentino ha deciso di comprimere il tutto il novanta minuti che scivolano via grazie ad una regia fluida, innovativa, matura. Perfetto il montaggio curato da Jacopo Quadri, già editor di registi del calibro di Mario Martone, Paolo Virzì e Bernardo Bertolucci, Ottimo il lavoro di Alessandro Abate che con la sua fotografia ha ampliato il senso di inquietudine ed indolenza utilizzando toni cupi. Preziose le musiche di Riccardo Veno che colmano con puntualità i vuoti lasciati dai dialoghi scarni. Interessante l’intuizione della costumista Angela Barretta di vestire tutti con colori che vanno dal verde bosco al grigio tranne nonno Simone che avvolto nella sua canottiera bianca è l’unico personaggio ad essere candido, innocente, esente da colpe, chiuso nel suo silenzio. Bianco così come il cavallo che Arno rileggeva nei suoi ricordi e che incontra al termine del suo percorso. Attualmente il film, prodotto da Transitans Film e CaveCanem Cinemedia in associazione con Adriano Casale, non è in distribuzione nelle sale.