Prima scena : il bancario Nader e l’insegnante Simin, coppia borghese e benestante di Teheran, sono in tribunale per chiedere il divorzio. Ripresi da una inquadratura frontale si rivolgono, a turno e argomentando le proprie ragioni, a un giudice che non si vede, quasi “chiamando” lo spettatore a farsi giudice.
Lo spettatore da questo momento sarà coinvolto sia emotivamente che psicologicamente nella dolorosa e complessa vicenda della separazione dei due coniugi iraniani. La moglie, Simin, avendo finalmente ottenuto un difficilissimo visto per un lavoro in Europa vorrebbe trasferirsi con tutta la famiglia, soprattutto per garantire un futuro migliore alla figlia undicenne, Termeh. Il marito, Nader, non se la sente di separarsi dall’anziano padre, malato di Alzheimer e preferisce invece restare a Teheran.
In attesa della sentenza Simin ritorna dai genitori e Nader è costretto ad assumere una badante per il padre; trova una donna molto religiosa, proveniente da una famiglia povera e tradizionalista. Razieh, che ha già una
bambina da accudire ed è incinta, accetta il lavoro, contrario alle norme religiose islamiche, solo per necessità, senza informare il marito disoccupato, un uomo collerico e manesco.
Un evento imprevisto complica ulteriormente la vicenda, innescando una spirale di situazioni conflittuali che sfuggono dal controllo di ciascuno dei personaggi, in un groviglio di bugie e di mezze verità in cui tutti sono
innocenti e colpevoli nello stesso tempo. L’evolversi della storia mette progressivamente a fuoco non solo la separazione di Nader e Simin ma anche altre separazioni, meno evidenti. Come quella data dalla classe sociale e dalla diversa condizione economica delle due famiglie, o quella di tipo religioso, in cui alla coppia protagonista, laica e occidentalizzata, viene opposto il tradizionalismo della famiglia di Razieh. Diverso è anche lo sguardo silenzioso dei bambini, ancora innocente e puro, rispetto a quello degli adulti, opportunisti e inclini a pensare solo ai propri interessi. Le vicende individuali si mescolano e si rincorrono, sollecitando continuamente lo spettatore a immedesimarsi nelle scelte dei vari personaggi, ma senza imporre o forzare giudizi morali o ragioni che, alla fine, nessuno ha fino in fondo.
Si condividono e si giustificano le motivazioni di ognuno, salvo riconoscerne poi l’ipocrisia e la doppiezza delle intenzioni. L’aspetto più rilevante del film capolavoro di Asghar Farhadi è proprio questo, che pur narrando una vicenda completamente immersa nella società iraniana e nella cultura islamica racconta al tempo stesso una storia universale, piena di dolorosa umanità e di sentimenti contrastati, assolutamente attuali anche nella vita quotidiana di un cittadino europeo. La macchina da presa di Farhadi segue febbrilmente i personaggi, non li abbandona mai, li riprende con primi piani intensi che penetrano nella loro sofferenza e nei loro segreti. Lo spettatore può osservarli da vicino ma con discrezione : spesso le immagini sono nascoste o ostacolate da vetri e porte socchiuse, gli episodi fondamentali non sono quasi mai ripresi direttamente. Il montaggio incalzante esalta la struttura polifonica della sceneggiatura, tutti i personaggi sono ugualmente importanti e vitali, con un crescendo che a tratti assume la tensione del “giallo”.
Gli attori sono semplicemente straordinari, il regista ha lavorato molto nel teatro e cura in modo maniacale la recitazione. Al 61 Festival di Berlino, non sapendo scegliere chi premiare come miglior attore e miglior attrice la giuria ha deciso di dare i due premi al cast completo maschile e femminile, evento praticamente impossibile in un festival internazionale. Una separazione è stato uno dei film più premiati degli ultimi anni; le autorità iraniane e la severissima censura di Stato, che all’inizio lo avevano ostacolato o quanto meno non lo avevano gradito, hanno dovuto “far di necessità virtù”, finendo con esultare per il premio Oscar come miglior film straniero.
A mio parere pur essendo apparentemente apolitico e intimista il cinema neo-realista di Farhadi riesce a far risaltare, forse meglio dei film dichiaratamente politici e perseguitati dalla censura, le contraddizioni e l’oppressione del regime teocratico di Khatami e del presidente Ahmadinejad. Il messaggio finale è un messaggio di speranza. La speranza per il futuro dell’Iran è rappresentata dalle donne, nella storia raccontata sono le uniche figure in grado di riscattarsi, in particolare le bambine.
Le figlie delle due coppie assistono al conflitto silenziose ma non passive, sarà Termeh a dover giudicare e decidere cosa fare, entrando così nel mondo degli adulti, per fortuna ancora guidata dall’innocenza del suo sguardo e della purezza dei suoi sentimenti.
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