Melancholia è un pianeta, azzurro e bellissimo, che viaggia nello spazio, in rotta di collisione con la Terra. Justine (Kirsten Dunst) è una sposa che si sforza di sorridere, ma non riesce a partecipare alla gioia del suo matrimonio e si allontana più volte dai festeggiamenti. Nel suo animo c’è I cacciatori nella neve di Bruegel. Claire (Charlotte Gainsborough), sua sorella, ha organizzato e pianificato le nozze in grande stile e ora guarda con disappunto la sorella rovinare tutto con il suo comportamento. I genitori delle due sorelle, divorziati e pieni di astio e risentimento, non perdono occasione per attaccarsi davanti a tutti, mettendole ulteriormente in imbarazzo. La stessa Justine, che pure sembra amare sinceramente il semplice e onesto Michael, non riesce a comunicare con lui e sprofonda nel cattivo umore, fino a concedersi al primo venuto. Il matrimonio disegna un quadro di rapporti umani improntati alla prevaricazione, alla falsità e all’esteriorità, al non riconoscimento dei sentimenti, all’isolamento. È un mondo gattopardesco, viscontiano, un palazzo elegante e avvelenato, destinato alla fine; è l’orchestra che suona sul ponte del Titanic. Intanto, Melancholia continua la sua silenziosa corsa nello spazio.
Nella seconda parte, Claire invita Justine di nuovo al castello, dove vive con suo marito (Kiefer Sutherland) e suo figlio. Justine è in condizioni gravi. Il suo matrimonio è finito la sera stessa della celebrazione e la depressione non le permette neanche di alzarsi dal letto e mangiare da sola. Con il passare del tempo, le sue condizioni sembrano migliorare, per quanto gli stati d’animo malinconici non le diano tregua. Claire invece manifesta un’ansia crescente nei confronti di Melancholia. Gli scienziati sono ottimisti e anche suo marito non perde occasione di rassicurarla sul fatto che il pianeta non colpirà la terra, ma lei non riesce a nascondere la propria agitazione. E se fosse la fine di tutto? Quando scopre che Melancholia effettivamente è destinato a distruggerli, il marito di Claire si uccide. I rapporti di forza tra le due sorelle allora si invertono. Claire è costretta ad affidarsi a Justine, che si mostra paradossalmente sicura di sé davanti al manifestarsi della fine. Le due sorelle formano una coppia speculare. Una bionda, formosa, dal sorriso rapido e fugace, malinconica, incapace di essere felice. L’altra mora, nervosa, ansiosa di imporre il suo controllo sulla realtà. Justine sembra riuscire ad avere un rapporto sano solo con Leo, il figlio di Claire, al quale avrà la forza di donare una speranza anche nel momento finale.
Nell’ultima sequenza infatti, Claire, Justine e Leo si tengono per mano, seduti nella “grotta magica” creata da Justine, un rifugio fatto con bastoncini incrociati. Anche se quella è la fine, che ci viene mostrata impietosa e deflagrante, non è vero che tutto è nero. L’amore riesce a penetrare come un filo di luce nel buio della notte.
Ma che cos’è Melancholia?
È il nostro doppio, l’altra Terra, una massa speculare, brillante eppure oscura. Una forza gravitazionale che ci insegue, ci risucchia, ci schiaccia dalle profondità dello spazio (dell’anima?). La malinconia è la gravità del mondo, la pesantezza. L’incapacità di librarsi, di ridere e gioire per un niente. Melancholia è il destino di quel mondo, di quella civiltà. La civiltà che ha prodotto Wagner e il suo Tristan und Isolde, musica che non a caso apre il film. Il capolavoro del romanticismo tedesco, la malattia morale dell’Europa che produrrà il vuoto da cui avrà origine il Nazismo, come Von Trier non ha mancato di ricordare in conferenza stampa a Cannes. La malinconia del cavallo che si accascia a terra, dei paesaggi avvolti dalla nebbia, delle foreste buie e minacciose, come nei quadri di Füssli e Friedrich. L’Europa fredda e oscura, invernale, in cui soffia il vento del Nord, che toglie calore ed energia e induce l’insorgere dell’Umor Nero.
Nella sequenza iniziale, in cui una serie di tableaux vivant rendono il senso simbolico e metaforico del film, Justine giace a terra, tra l’erba, come Ofelia. Dei fili luminosi le escono dalle mani. Poi cerca di camminare, ma dalle gambe le escono delle radici che entrano nella terra, e la trattengono. Come in uno degli esercizi dello psicodramma di Moreno, i fili che ci trattengono sono i nostri ricordi, il nostro passato, tutto il nostro vissuto. Che può incatenarci, paralizzarci davanti alla vita. Così Justine è incapace di essere felice insieme a suo marito, perché troppo legata alla contemplazione del passato, alla nostalgia, alla malinconia che vela e nasconde la gravità della morte.
Claire invece, pragmatica e fredda, non riuscirà più a staccare gli occhi e la mente dal cielo. L’ineluttabile avvicinarsi di Melancholia la ipnotizzerà come un serpente ipnotizza un topolino.
Melancholia è un film che affronta apertamente la tematica della Malinconia nella tradizione letteraria, artistica e musicale europea. I riferimenti pittorici (il rinascimento nordico, soprattutto Bruegel il Vecchio, ma anche Millais, Caravaggio), musicali (Wagner), letterari e filosofici (Schopenahuer, Holderlin) sono numerosi ed espliciti. Tuttavia, Von Trier trasforma questo tema in uno schermo su cui proietta l’argomento che più gli sta a cuore. Questo è un film sulla depressione come patologia, inutile negarlo, e in questo sta il suo valore. Riesce infatti a descrivere in modo magistrale questa particolare condizione umana, che, ovviamente, non è tutta la condizione umana. Inutile quindi chiedergli di essere altro, come è stato fatto anche con l’opera precedente, Antichrist. La depressione è desiderio di morte, cupio dissolvi, lenta attesa, procrastinazione della vita, struggimento, intorpidimento dell’anima che non riesce più a scaldarsi, a scaldare. Ma davanti all’imminenza vera della fine, qualcosa si rompe. Mi viene in mente una frase di Sarah Kane: “Il suicida non ha nessuna voglia di morire”. Nel momento in cui la morte diventa un fatto terreno (tellurico?), Justine ritrova la forza di sostenere gli altri, con un fermo disincanto. Il suo cavallo non l’aveva mai voluta portare oltre il ponte – forse che il castello sia in realtà un’isola? L’isola dei morti? - Ora è Claire che non riesce ad andare via, a fuggire. Nel castello incantato, gli orrori emersi dalla terra nera e gelata e quelli provenienti dagli spazi siderali (che sono gli stessi, speculari, orrori) finalmente si incontreranno-scontreranno.
Il finale è tragico, eppure anche liberatorio. La fine arriva con un sospiro di sollievo. Forse è giusto che quel mondo sia finito. Forse dobbiamo far finire quel mondo, per sempre. Perché possiamo finalmente ricominciare.
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