Di Cyril, ragazzino dal carattere ribelle e pervaso da irrefrenabile furore, si sa molto poco: che è di madre ignota (nel film non viene mai citata); che ha un padre affettivamente lontano e non disponibile nei suoi confronti; che è alla ricerca spasmodica di un rapporto con detto padre; che vive in simbiosi con la sua bicicletta, più volte sottrattagli e sempre in qualche modo ritrovata; che non accetta una sistemazione in un Istituto formativo; che incontra casualmente una donna che, per qualche motivo, accetta di prendersi cura di lui. Il back ground di questa situazione di partenza non è noto, e volutamente i fratelli Dardenne vi soprassiedono per concentrarsi sul doppio percorso del ragazzo verso un padre immaturo ed arido ai limiti della scelleratezza, povero di mezzi, che rifiuta la relazione con il figlio in quanto incompatibile con le proprie scarse speranze di autorealizzazione, e verso una donna che viceversa, pur non avendo alcun legame, vorrebbe accostarsi a lui offrendo ospitalità ed affetto ed addirittura la rinuncia al proprio compagno, e da lui è inizialmente respinta come sgradita intrusa ed elemento di distrazione dall’unico obiettivo della sua vita (la conquista del padre). Cyril usa la sua bicicletta, sua inseparabile appendice, come mezzo di trasporto che gli consente di andare ovunque lo spinga la incontenibile rabbia, come legame psicologico con il padre (che pure se ne è disfatto per soldi), come sfogo dell’accumulo di frustrazioni ed infelicità che può liberamente scaricare sui pedali, come strumento di seduzione e di esibizionismo delle sue virtù equilibristiche. Il cammino di riscatto e di maturazione sarà lungo, pieno di insidie, prove più grandi di lui, violenze fisiche e mentali, ma alla fine le conseguenze degli errori compiuti e di un vissuto così traumatico lo metteranno in condizione di scegliere al meglio tra un obiettivo impossibile e l’offerta generosa (anche in termini economici) e sincera di un’accoglienza materna piena di attenzioni e d’amore.
Il cinema dei Dardenne non è nuovo alle tematiche che vertono sull’infanzia difficile e sulla problematicità del rapporto genitori-figli (si pensi al penultimo film, L’Enfant), oltre che sui difetti di una società ben poco attenta alla fragilità di chi ha bisogno della solidarietà o comunque dell’aiuto altrui. Nello sviluppo del racconto emergono la delusione dell’adolescente abbandonato, il fallimento e la fuga dalle responsabilità di un padre snaturato, la violenza di chi sfrutta la minorità psicologica di un ragazzo senza orientamento per coinvolgerlo in eventi scellerati, l’opportunismo cinico perfino delle vittime dei suoi sbagli, apparentemente pronte al perdono L’unica deroga a tale scialbo panorama sociale è rappresentata dalla donna protagonista, bella fisicamente ed interiormente, che si propone senza alcun altro interesse che non sia la spontanea disponibilità a dare affetto e sostegno a chi se ne dimostra bisognoso anche se non sempre meritevole.
Il cinema dei Dardenne si attiene alla scelta di un realismo sociale fatto di storie di quotidiana difficoltà, che richiama per alcuni versi certo verismo a tinte forti dei Cohen e quello crudo e violento di Loach, anch’essi inclini ad opere di decisa denuncia politica o sociale; ma il loro stile è asciutto, apparentemente diretto a nascondere sotto un velo di “normalità” vissuti e situazioni fortemente problematiche, attento a non colpire al cuore lo spettatore; non ci sono immagini scioccanti, il dialogo è piano e privo di battute memorabili, e tale insieme insinua i germi di una riflessione lenta, quasi ad effetto ritardato. La visione di Non è un Paese per vecchi o di Il vento che accarezza l’erba induce ad un accumulo di emozioni che non è facile smaltire in poche ore. Il (o i) film dei fratelli belgi bypassano la pancia e fanno pensare, ripercorrere i tasselli del racconto con un certo distacco, anche se talune soluzioni sceniche sono davvero interessanti, come la cupa e fredda materialità della cucina in cui sono ambientati i pochi incontri tra padre e figlio, che rispecchiano bene l’aridità senza calore e senza sentimenti del primo. Qualcuno ha rimarcato un presunto taglio favolistico del film, dove il giovane Pinocchio, sprovveduto e incline all’errore ed alla trasgressività, è vittima di figuri senza scrupolo, e viene salvato dal provvidenziale intervento della mamma-fatina, da cui è condotto finalmente sulla retta via. Ma non mi sembra una lettura appropriata, vista il forte e realistico riferimento degli autori ad un modello sociale specifico che mal si presta ad uno schema interpretativo di tale genere. Da vedere, ma non appassionante.
CLAUDIO
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