Se c’è un cineasta capace di tradurre in immagini le unità aristoteliche, quello è Roman Polanski. Così, è la stanza di un appartamento di Brooklyn a divenire inconsapevole trappola per i quattro protagonisti dell’intricata storia disegnata con Carnage.
Come nel Nodo alla gola di Alfred Hitchcock è il borghese appartamento di una città a fare da sfondo all’azione, nell’arco di un qualsiasi pomeriggio dentro al quale si trovano immersi come prigionieri le coppie di coniugi Cowan e Longstreet, strette nella morsa di due piani sequenza esterni, che eludono l’unità di luogo soltanto per fungere da cornici alla vicenda.
Vicenda principale che solo apparentemente è l’azzuffarsi dei rispettivi figli 11enni osservata in principio sul verde proscenio del Brooklyn Bridge Park, mentre la crescente ritmica dissonanza di Alexandre Desplat ci accompagna fra i due alberi dove si avvia il motus di tutto l’impianto: Zachary Cowan rifila una bastonata a Ethan Longstreet, facendogli perdere due incisivi.
L’icastica assenza che dà il la alla carneficina sociale, consumata fra pareti domestiche in un bailamme di maschere col volto di quattro grandissimi attori: Kate Winslet è Nancy Cowan, Christoph Waltz il marito Alan, John C. Reilly è Michael Longstreet e Jodie Foster sua moglie Penelope. Proprio da lei si dipana l’azione sotto il battere di una macchina da scrivere che redige il resoconto sul fatto scatenante e motivo dell’incontro, omerica tessitrice di una tela che però si disfa diventando un ingarbugliato gomitolo di verità nascoste.
Un crescente aggrovigliarsi di menzogne lungo il piano dell’azione, ove si accumulano come improvvisi detonatori futili questioni (il fatto che Michael si sia liberato nottetempo del criceto della figlia) e oggetti quasi vivi (il telefonino-protesi di Alan, i “sacri” libri d’arte di Penelope) che concorrono a far esplodere le maschere in quel conato di vomito di cui è protagonista Nancy. Punto di non ritorno, contrappeso che cade e fa scattare la molla della rivelazione: il piano della situazione s’inclina e su di esso cominciano a scivolare sempre più forte le meschinità dei quattro, vincendo la forza d’attrito dell’ipocrisia.
Sul fondo del piano arriva la matassa di quattro vite squarciate nella loro terribile nudità, slabbrate dalle falsità quotidianamente portate in giro e infine eruttate come un magma inarrestabile sui divani di un appartamento newyorchese. Quattro esistenze infelicemente confuse, attonite, maschere di sale dinanzi alla resuscitata vibrazione finale del cellulare di Alan; congegno che chiude il sipario, nella sua limpida veste da terzo (quinto?) incomodo e invisibile protagonista di un dramma umano. Come quel piccolo criceto che riappare a salutarci, scappato appena in tempo al cappio di un arruffato gomitolo nel quale sono rimaste intrappolate le vite di quattro adulti.
Tutto mentre là fuori Ethan e Zachary, con la leggerezza dei ragazzi, ricompongono la loro amicizia. E lo fanno proprio attorno a un cellulare. Segno e segnale di una chiamata persa per quei grandi fatti piccoli piccoli dalla perfetta carneficina di Polanski.
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