David Keating dirige con abilità una storia ad alta tensione.
di Rudy Salvagnini
Tutto è cominciato forse con il fulminante racconto "La zampa di scimmia" scritto da W. W. Jacobs nel 1902. Nel racconto, una tranquilla coppia di mezza età ha la possibilità di esprimere tre desideri grazie a una zampa di scimmia dai poteri magici. Uno di questi desideri riguarda il ritorno in vita del loro figlio, vittima collaterale e involontaria di un altro loro desiderio precedente. Riportare in vita i propri cari defunti, soprattutto se morti prematuramente, è un desiderio che chiunque può comprendere ed è una tematica capace di sviluppare in modo naturale una notevole tensione emotiva. "La zampa di scimmia" è stata oggetto di diverse versioni per il piccolo e il grande schermo, tra cui una co-diretta nel 1933 da uno dei papà di King Kong, Ernest B. Schoedsack. Ma molti altri film hanno sviluppato lo spunto in modo significativo e autonomo. La morte dietro la porta (1974) di Bob Clark ha aggiornato la vicenda ai tempi del Vietnam, raccontando di un reduce di guerra che, tornato in patria dove l’attendono ansiosi i genitori, rivela presto una natura del tutto particolare. Zeder (1983), capolavoro horror di Pupi Avati, racconta di un misterioso terreno K che consente ai morti di ritornare tra noi. Pet Sematary (1989) di Mary Lambert da Stephen King vede un luogo miracoloso nel quale chi vi è sepolto torna in vita, con conseguenze poco simpatiche, come scoprono due coniugi desiderosi di riavere il figlioletto ucciso da un camion. Ma ve ne sono molti altri, tra cui un episodio di Racconti dalla tomba (1973) di Freddie Francis.
Wake Wood, il ritorno in vita dell'amata figlioletta
Il recente Wake Wood di David Keating si inserisce con buona efficacia in questo filone raccontando una storia che possiede gli elementi giusti, combinati con stile in modo essenziale.
La vita di una giovane coppia è sconvolta dall’improvvisa morte dell’amatissima figlioletta Alice a opera di un cane impazzito. Patrick, veterinario, e Louise, farmacista, cercano di ricominciare cambiando residenza e andando a vivere nel piccolo villaggio di Wake Wood, in piena campagna. Tra i due però le cose non funzionano, il dolore è troppo grande. Louise vuole andarsene e chiede al marito di accompagnarla in stazione. L’auto però va in panne di notte in piena campagna. Cercano aiuto a casa del capo del villaggio, Arthur, ma lo trovano intento, assieme ad altri abitanti locali, a celebrare uno strano rito pagano. Scopo del rito è riportare temporaneamente in vita i cari estinti, strappati troppo presto ai loro familiari da un destino crudele. Quando Arthur gli prospetta la possibilità di riportare in vita Alice per tre giorni in modo da salutarla in modo appropriato, Patrick è turbato, ma Louise lo vuole assolutamente. E lo ottiene: la piccola Alice ritorna. Le cose però non sono così semplici.
Realismo e giusta tensione
L’ambientazione nella campagna irlandese autunnale è perfettamente funzionale alla rappresentazione di un dolore tremendo di fronte al quale nulla è troppo se può portare alla sua riduzione, al suo annullamento. La forza dell’amore sembra il motore dell’insopprimibile volontà con cui i genitori compiono le cose più terribili - come violare la tomba della loro figlioletta per procurarsi qualcosa di lei con cui far funzionare il rituale - ma, come è spesso sottolineato in questo genere di storie, si tratta di un amore mal diretto, più vicino all’egoismo di chi non voglia rinunciare a qualcuno di amato, costi quel che costi. Un egoismo che non tiene conto di quanto è bene soprattutto per chi viene richiamato alla vita, ridotto a simulacro del sé precedente. Wake Wood rende molto bene questi stati d’animo e il pathos che sviluppa, arricchito dal realismo di personaggi e ambienti, è consistente e spesso struggente. Il rito della rinascita è brutale e segna la sofferenza del passaggio, che richiede sacrificio e rinuncia. La provvisorietà di una felicità limitata nel tempo getta un’ombra sulla ritrovata unità familiare, ma, dopo aver impostato con abilità la situazione di partenza, Keating è capace di svilupparla in modo abile, portando avanti contemporaneamente inquietudine e sentimento senza cadere troppo nei luoghi comuni che le vicende di ritorno alla vita ormai hanno creato. La tensione non abbandona mai la storia, ma aumenta con il passare dei minuti strisciando lentamente nella vita del villaggio in un efficace crescendo fatto di poche parole, di molte immagini suggestive e di sequenze tese. Sino alla conclusione, il film mantiene - pur con qualche cedimento a taluni degli obblighi di routine dell’horror - la sua tensione interna e le svolte narrative che si susseguono sono coerenti con la tematica e l’umore del film, sino a una conclusione che non delude, compreso, per una volta, anche un sottofinale piuttosto brillante. Echi da The Wicker Man, non tanto nella storia quanto nell’ambientazione magico-rurale, forniscono un suggestivo retroterra etnico al film.
In definitiva, un horror da consigliare
La recitazione “quotidiana” e senza enfasi di un gruppo di attori più che validi aggiunge convinzione e credibilità alla storia. Tra tutti, sono da segnalare almeno l’esperto Timothy Spall, patriarca di campagna saggio ma non abbastanza, e la piccola Ella Connolly che si iscrive con merito e di diritto nell’album dei bambini terribili dell’horror.
Keating, a distanza di molti anni dal suo precedente lungometraggio (L’ultimo dei grandi re), dimostra notevoli capacità espressive, fermezza nel dirigere e un’apprezzabile maturità nella gestione della storia.
Un horror da consigliare, prodotto dalla gloriosa Hammer, la casa responsabile della rinascita dell’horror alla fine degli anni ’50 con film come La maschera di Frankenstein e Dracula il vampiro, ora tornata a nuova vita, ma fortunatamente senza le conseguenze collaterali della piccola protagonista di questo film.