Nel film si narra dei fatti realmente accaduti a Parigi, nel 1942, durante la seconda guerra mondiale. Nella Francia filonazista di Laval e Petain si organizza segretamente il rastrellamento di 24.000 ebrei parigini.
Rose Bosch ci mostra il graduale e progressivo affievolirsi delle libertà giudaiche a Parigi: appaiono le stelle gialle sugli abiti di tutti gli israeliti, come forma embrionale di razzismo e ghettizzazione; emergono i primi sintomi di intransigenza dei parigini nei confronti della “razza inferiore”, cui non sfuggono neppure i bambini; gli ebrei vengono banditi da impieghi e cariche pubbliche, non possono frequentare i luoghi pubblici, e vengono sottoposti a un rigido coprifuoco così da limitarne la visibilità e i movimenti.
In questo contesto la lente della Bosch si sofferma in particolare sulla famiglia dell’undicenne Joseph Weissmann e sui numerosi nuclei ebrei presenti a Montmatre, nel cuore di Parigi. Le loro vite semplici, la paura del domani, le umiliazioni subite e le domande prive di risposte consentono di dare un volto comune alle vittime dell’olocausto.
Nel frattempo, Hitler muove i fili dall’alto della dimora bavarese di Berghof, mentre a Parigi i frutti delle sue macchinazioni si concretizzano negli incontri fra i suoi messi e i membri del governo collaborazionista francese. Il progetto di sterminio viene camuffato in più modi, ed eseguito con lucida determinazione ai danni di persone inconsapevoli, che non oppongono una strenua resistenza a ciò che sembra un mero allontanamento delle comunità ebraiche da Parigi, una prigionia volta per lo più a sfruttare la forza lavoro degli uomini.
Ma il primo campanello d’allarme suona quando, il 16 luglio del 1942 (i tedeschi avevano proposto il 14, ignorando con sprezzo la festa nazionale francese) la Gendarmeria, braccio armato degli accordi franco-tedeschi, inizia a rastrellare uomini e donne, anziani e bambini, senza distinzioni di sorta (alla fine saranno 12.884 persone tra cui 4.051 bambini). La prima tappa della prigionia itinerante è il Velodromo d’Hiver, dove migliaia di ebrei vengono ammassati in condizioni d’indigenza, senza cibo, acqua, e una sufficiente assistenza sanitaria: è quasi una prima scrematura, in cui i più deboli cedono alla mancanza di cure. Fra gli sguardi spaesati di esseri umani trattati alla stregua di bestie, si fanno largo il medico ebreo David Sheinbaum e l’infermiera Annette Monod, che tentano di assistere materialmente e supportare a livello morale un numero enorme di individui.
Ma presto ogni certezza si sgretola e negli occhi di chi subisce una tale violenza lo smarrimento sfuma in disperazione. Dopo pochi giorni i prigionieri vengono infatti trasferiti in un campo di transito a Beaune-la-Rolande, nel dipartimento della Loira, dove gli stenti e le difficoltà aumenteranno notevolmente. Di lì a poco, gli adulti e i bambini più grandi verranno trasferiti ad Auschwitz,dove i loro destini assumeranno i contorni disumani che tutti conosciamo.
Il film si basa su un lungo e attento lavoro di ricerca e sulle testimonianze dei sopravvissuti, fra cui spicca Joseph Weissmann, il bimbo allora undicenne (interpretato splendidamente da Hugo Leverden) che riuscirà a scappare assieme a un coetaneo prima dell’ultima e definitiva deportazione.
Il film della Bosch è un magnifico e attento ritratto di quei giorni parigini, in cui si mostra con estrema chiarezza la fredda e sistematica macchinazione che si nascose dietro la sterminio, l’inganno e la violenza con cui milioni di persone vennero spogliate sistematicamente di ogni cosa. La macchinazione e l’inganno da cui scaturì l’abominio fanno più paura dell’abominio stesso, poiché il fatto che alcuni uomini si sedettero consapevolmente attorno a un tavolo per sancire l’annientamento metodico di milioni di persone sfugge –o dovrebbe sfuggire- a qualsiasi logica umana.
Va sottolineata la performance corale di tutti gli attori in scena, fra cui spiccano Gad Elmaleh e Raphaelle Agoguè nel ruolo dei coniugi Weissmann. Un plauso particolare va rivolto a Jean Reno, solido e maestoso nel ruolo del Dr Sheinbaum, tenero e commovente nelle vesti di semplice prigioniero; ma sono la grazia e la bellezza di Mèlanie Laurent (l’infermiera Annette Monod) a conferire all’opera ulteriore forza: l’attrice francese muove un corpo esile e affaticato sulla scena, posa il suo sguardo profondo ed etereo sui bambini denutriti che nei gesti divengono suoi figli; il suo aspetto cereo aumenta il fascino di un personaggio che trasferisce a chi guarda l’idea di un tracollo sempre imminente; gli occhi della Laurent vacillano nel terrore e nell’incredulità a tal punto da mostrare il riflesso vacuo del dilagante sfacelo; la morte è fuori, ovunque, ma transita anche nelle pupille chiare e flebili di una donna che rappresenta la resistenza umana e materna alla barbarie nazista.
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