1865, Nord America. Il Presidente Lincoln viene assassinato durante una rappresentazione teatrale. L’omicida, attore dalle sembianze troppo note per farla franca, è un filo-sudista di nome John Wilkes Booth (novello Bruto, “Sic sempre tyrannis” avrebbe gridato dopo il misfatto), acerrimo nemico dell’Unione e di chi lo rappresenta al massimo vertice, che viene presto rintracciato ed ucciso dall’Esercito in un capannone non troppo lontano. Secondo un piano preordinato, altri 2 alti membri del Governo vengono assaliti dalla stessa banda di cospiratori, ma riescono a cavarsela.
Fin qui informano i comuni libri di storia. Redford, intenzionato a scavare nelle pieghe delle vicende che seguirono e nei risvolti più oscuri che caratterizzarono le dinamiche scatenatesi in occasione dello shock generale che pervase il mondo politico e l’opinione pubblica a seguito all’attentato, affronta un argomento poco conosciuto che mette in forte risalto i limiti e la fragilità del nuovo Stato, alla fine ormai pressoché avvenuta della guerra di Secessione: il processo ai responsabili dell’omicidio. Oggi diremmo ai “presunti” responsabili, ma in quella vicenda la condanna degli imputati fu il punto d’inizio, più che la conclusione, del processo: il verdetto venne preventivamente deciso per motivi politici, e fu blindato sia stabilendo la sede militare anziché quella civile (anche se le trattative di pace erano praticamente concluse, il che avrebbe dovuto far venire meno la competenza della corte marziale), sia, conseguenzialmente, imbottendo la giuria di ufficiali di provata fede antisudista, chiaramente orientati a far piazza pulita dei cospiratori molto più che a tutelare l’imparzialità del corso del dibattimento.
Protagonista assoluto dell’operazione fu il Ministro della Guerra Stanton, colui che con ferma determinazione manovrò i fili nominando i giudici, vigilando senza sosta sull’andamento processuale, intervenendo sui debordi contingenti dalla linea imposta, e finanche sul contenuto e l’operatività della sentenza ancorché già emanata: l’opinione pubblica doveva essere in ogni caso rassicurata con un’esemplare dimostrazione di “pulizia giudiziaria”, capace di superare dubbi, rancori residui, divisioni, incertezze che l’eliminazione di Lincoln aveva riportato a galla.
Redford ci illustra e ci racconta un processo farsa, vestito apparentemente di forme rituali e di garanzie democratiche come il contraddittorio tra accusa e difesa, ma sostanzialmente animato da spirito di pura vendetta che non ammette deroga. Il Davide della situazione –un giovane, anche se già eroe di guerra, avvocato alla prima prova impegnativa- nulla può contro il sistema Golia, costituito da un potere politico-militare compatto che non lascia spazio ad esiti alternativi a quelli preventivamente decisi. Gli imputati fin dall’inizio non hanno scampo; e non solo i balordi superstiti della banda di Booth, ma anche e soprattutto Mary Surrat, proprietaria della pensione in cui si riunivano i congiurati e madre di uno di essi, fuggito subito dopo l’attentato. Ed è proprio sulla sua figura di donna, nobilmente coraggiosa e decisa ad affrontare il verdetto portandosi dentro una verità “familiare” che forse avrebbe potuto salvarla, che Redford concentra la sua attenzione. La dialettica tra l’avvocatino, inizialmente recalcitrante e poco convinto dell’innocenza della sua assistita, e la donna, pervicacemente decisa a difendere la sua estraneità al complotto con il massimo di fermezza e dignità, è il fulcro su cui si sofferma la macchina da presa, ed è anche la dimensione “limpida” in cui il regista sembra volersi rifugiare nell’ambito di un contesto in cui predomina la forza inesorabile di un potere cieco ad ogni esigenza di equità e di vera giustizia.
Redford, come è noto, non nasconde la sua predilezione per il cinema classico, secondo i tradizionali canoni hollywoodiani (lo schema ricalca “Codice d’onore” di Reiner, anche se il finale, a causa del rispetto dei riferimenti storici, è del tutto diverso). Ci dice fin da subito da che parte stanno il torto e la ragione, l’azione, in gran parte girata in una semplice aula giudiziaria o comunque in interni, si svolge in modo lineare: non si ravvisano guizzi di regia o effetti che impreziosiscano particolarmente le immagini; la rilevanza della vicenda –visto l’interesse del regista per i temi sociali e civili- giustifica la preminenza del contenuto sulla forma, cioè della storia sulle immagini. Così come è chiaro il quesito che sottende l’intero film: in un momento di diffuso pericolo, come quello conseguente all’uccisione della guida suprema di uno Stato di recente nascita ed appena uscito da una devastante guerra fratricida, è ammissibile che ragioni di realpolitik prevalgano sul pieno rispetto delle garanzie costituzionali? Evidentemente la risposta di Redford, come di tanti democratici convinti, è scontata.
The Conspirator appartiene a quel filone “nobile” il cui fine implicito consiste nel coinvolgere lo spettatore direttamente in una vicenda in cui, nel contrasto con le forze ostative, si evidenziano i valori fondamentali che si intendono esaltare (come l’esigenza di un processo giusto tipica di qualsiasi democrazia) senza orpelli o divagazioni narrative o formali. Ed in questo Redford ha pienamente centrato l’obiettivo, grazie anche ad un cast di alto spessore, in cui è doveroso citare, oltre ai due protagonisti, almeno Kevin Kline, perfetto nel delineare il politico calcolatore, freddo e machiavellicamente pronto a tutto pur di arrivare alla meta, e Tom Wilkinson, incisivo come al solito sia pure in una parte di secondo piano.
[+] lascia un commento a pepito1948 »
[ - ] lascia un commento a pepito1948 »
|