Blood Story

Entrando in sala per la visione di Blood Story, e durante il percorso che mi ci ha condotto, mi sono domandato: che senso può avere riprodurre un film delicato e complesso come il "Lasciami Entrare" di Tomas Alfredson, di così recente produzione, e riproporlo senza modificarne la veste? Si è gridato all’istant-remake. Si è additata la bieca operazione commerciale. Ma qui voglio tentare un’analisi dell’individuo cinematografico nella sua personalità, senza comparazioni o illazioni. Descrivere la trama del film è del tutto superfluo e rischia di annichilire e banalizzare il prodotto. Mi limiterò a descrivere le sensazioni che ho ricavato dalla visione, accompagnate e guidate dall'eccellente colonna sonora di Michael Giacchino. L’angoscia sottile che si insinua tra le poltrone della sala ascoltando le litigiose telefonate della madre di Owen, il piccolo protagonista, e suo marito, con il quale è sulla via del divorzio. Il fragile, continuo contatto della donna con il bicchiere (vino, whisky?), il suo addormentarsi sul divano davanti ad una televisione roboante di spirito reaganiano, sfinita dal pianto. E il piccolo Owen seduto nel buio sporcato dai lampioni, seduto sulla neve ingiallita, a mangiare caramelle, che canta da solo. La delicata, disturbante femminilità di Abby, bambina troppo seria e poco loquace, i suoi piedi nudi in inquietante spregio al freddo inverno del New Mexico, alle convenzioni sociali e allo stupore che quella nudità provoca negli imbacuccati spettatori. E quel sorriso, così onesto, sul suo viso di ragazzina. La sua trasformazione è ovvia, ce la si aspetta dal primo istante del film, eppure sorprende, inopinatamente. Da infante a bestia, con una brutalità meccanica, scattosa, cruda. Una mostruosità disumana che colpisce e intenerisce nella sua incertezza, ad esempio nella sequenza in cui Abby scala un pino in pieno cortile condominiale, incespicando. La figura del padre putativo della piccola è forse quella più spaventosa del film. Quale contorto abisso di affetto incondizionato, quale timore, quale devozione lo spinge a compiere i crimini di cui si macchia nello svolgersi della pellicola? E qual è il senso del suo ultimo, spaventoso sacrificio? Si punisce o affronta l’ultimo servigio? Quest’uomo, interpretato dall’ottimo Richard Jenkins, terrorizza nella sua stanca frequentazione di un orrore indicibile, nella cura rassegnata che riserva al mostro, nella fredda abitudine quotidiana che lo porta a confrontarsi con i suoi raccapriccianti doveri di tutore. Mentre si osserva lo schermo è inevitabile chiedersi cosa mai abbiano condiviso l’uomo e la bambina, come sia maturato il loro affetto teso, disperato e repulsivo al contempo. E ce ne sarebbe ancora da dire, ma incorrerei nel rischio di svelare troppi dettagli del film. Un’opera che sposa la delicata caducità di due infanzie che si affacciano ad un’adolescenza già morta, alla violenta e clinica brutalità della morte, che pure non è mai inquadrata con volgarità e tanto più spaventosa quanto meno mostrata. Attori eccellenti, una regia illuminata ed una colonna sonora splendida sono riusciti a fare di una copia un’originale, e di livello.