Il mio nome è Khan

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Originale storia con al centro un eroe generoso. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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martedì 23 maggio 2017

 

IL MIO NOME è KHAN (IND/USA, 2010) diretto da KARAN JOHAR. Interpretato da SHAH RUHK KHAN, KAJOL, CHRISTOPHER B. DUNCAN, KATIE A. KEANE, KENTON DUTY, BENNY NIEVES, JIMMY SHERGILL, SONYA JEHAN, PARVIN DABAS, ARJUN MATHUR

Rizwan Khan nasce in India, perde il padre giovanissimo e viene allevato da una madre paziente che sa apprezzare le sue ottime qualità. Di religione musulmana, affetto dalla sindrome di Asperger, abilissimo nelle riparazioni di fortuna a tempo di record e con una memoria prodigiosa per le date, la matematica e la geografia, Rizwan cresce nel paese d’origine fino all’età adulta, quando sua madre gli consiglia di trasferirsi negli Stati Uniti, sull’esempio del fratello maggiore Zakir, e crearsi una vita felice. L’uomo va a vivere a Banville, all’ombra di San Francisco. Il fratello gli trova un posto come venditore ambulante e rappresentante di creme di bellezza. Là conosce la dolce e simpatica parrucchiera Mandira, sua conterranea di religione induista, se ne innamora, ne è ricambiato e la sposa dopo un divertente e ossessivo corteggiamento. La donna è divorziata e ha un figlio piccolo di nome Samir, di cui Rizwan diventa padre putativo. Tutto procede magnificamente fino agli attentati dell’11 settembre 2001: con l’esplosione del terrorismo islamico e la minaccia della jihad in terra statunitense, fioccano in tutto il paese gli episodi di intolleranza nei confronti dei musulmani, e Khan è vittima degli stessi, anche da parte della moglie, che comincia a non fidarsi più di lui dopo che il figlio Samir viene aggredito in un campo da calcio e ucciso a forza di percosse mentre cercava di riconquistare l’amicizia del coetaneo Reese. Questi conosce gli assassini dell’amico musulmano, ma tace, rendendo la vita infernale a Mandira, oppressa dal dolore per il terribile lutto, tanto che propone sarcasticamente a Khan di andare dal Presidente degli Stati Uniti, rivelargli il suo nome e asserire di non essere un terrorista. L’uomo, nella sua ingenuità, la prende alla lettera e, alla fine del 2007, intraprende un lungo viaggio da un versante all’altro del paese, percorrendo più volte la sua superficie, facendo tappa in varie località più e meno importanti (Santa Fe, Los Angeles, Wilhemina, dove aiuta la piccola comunità autoctona a difendersi dal devastante uragano Molly del 2008), incontrando vari ostacoli e venendo perfino arrestato quando è a un passo dall’incontrare il capo dello Stato. A quel punto, specialmente dopo l’impegno civile profuso per aiutare le vittime della tempesta oceanica, sale alla ribalta della cronaca nazionale, divenendo oggetto dei telegiornali che lo ritraggono come un uomo semplice ma determinato che intende a tutti i costi realizzare il suo sogno di incontrare il Presidente. Nel frattempo è ormai giunto il 2009, finisce la legislatura Bush e il nuovo capo dello Stato è Barack Obama, che accoglie fraternamente Rizwan e lo celebra come esempio di risolutezza e purezza di cuore. Khan ha felicemente coronato il suo obiettivo, ritornando a vivere con serenità e spensieratezza l’amore sincero per Mandira, che finalmente si ricrede e riprende ad amarlo. La carta vincente è senza dubbio il protagonista di S. R. Khan, l’attore più in voga della Bollywood odierna, che tratteggia con simpatia e carineria un uomo affetto da una lieve forma di autismo che si rapporta col mondo senza mai abbandonare i suoi rituali (tenere la testa chinata in avanti, giocherellare con tre sassolini nella mano) ma neanche l’abitudine di dire sempre la verità e un’onestà di fondo tanto disarmante quanto commovente. E il film sa commuovere e far ridere al tempo stesso, come ogni commedia degna di questo nome dovrebbe fare. Indebolita soltanto da alcune ingenuità di sceneggiatura nella descrizione del disturbo autistico del personaggio principale (ma del resto il libero adattamento viene ribadito anche nei titoli di testa) e da un impianto made in Bollywood che calca troppo la mano sui mielosi intermezzi musicali e sulla ricerca sfrenata di leziosità coreografiche, la trama mette in scena una storia interessante, che ha, come molti critici hanno giustamente osservato, numerosi punti di contatto con Forrest Gump: Khan è un uomo schietto, un eroe non convenzionale, un paladino della diversità che, al pari dell’idiot savant di T. Hanks, sa compiere imprese straordinarie semplicemente nel nome dell’altruismo e della carità, credendo fermamente negli scopi che si pone e senza demordere mai prima di averli conseguiti, costi quel che costi, anche affrontare la possibile perdita di un amore o un viaggio in lungo e in largo per una vasta nazione. L’intelligenza della sceneggiatura sta nel mescolare il pathos all’autoironia, nel destrutturare i pregiudizi su chi è portatore di handicap ma riesce comunque ad edificarsi una vita, nel prendere di mira il fondamentalismo mediante una critica profonda e lucida delle ingiustizie razziali e nel descrivere un quadro famigliare che si completa con l’arrivo del protagonista, rischia di spezzarsi con la violenta morte di Samir e poi si ricompone grazie all’avventura solitaria intrapresa da Khan nel tentativo di salvare sia la sua passione amorosa con Mandira, sia la nomea nobile e pulita del suo popolo. Non a caso la madre illuminata, tramite un esempio reso con un disegno su un foglio bianco, gli spiega che il mondo si divide in persone buone e persone cattive, e non c’è religione o credo che tengano, quando si ha a che fare con la benevolenza o la malvagità dell’essere umano. A suo modo, è anche una pellicola politica, perché ha l’ulteriore pregio di esaminare con uno sguardo distaccato, e sempre più documentaristico che politicizzato, i problemi che stanno alla radice della difficile convivenza dei popoli in una società multietnica come quella americana del Nuovo Millennio. Khan non fa distinzioni di razza, fede religiosa o provenienza geografica, lui è disposto a fornire il suo sostegno disinteressato a chi si trova in condizione di urgente necessità, e questo gli permette di essere amato e di provare ad amare a sua volta, benché egli stesso riconosca con saggezza che fatica ad esprimere i propri sentimenti, quantomeno senza ricorrere alle parole. Nonostante abbia la tendenza a ripetere le stesse frasi e a non ascoltare troppo i suoi interlocutori, è una persona profondamente caritatevole, capace di sacrificarsi per gli altri e priva di intenzioni crudeli. Perfino i due giornalisti che riprendono l’arrivo del Presidente all’Università della capitale si accorgono della sua innocenza, e investono, ricorrendo illegalmente ad un hacker, affinché Rizwan possa uscire di prigione, in cui è stato rinchiuso proprio mentre pronunciava la frase che dà il titolo al film: «Signor Presidente! Il mio nome è Khan e non sono un terrorista!». Un cast di caratteri tutti da ricordare, tutti affiatati e bravissimi, con interpretazioni una più stupenda dell’altra, dalla vivace e caparbia Mandira di Kajol a Samir, ragazzino undicenne in cui Khan trova quello che definisce il suo unico amico, dal fratello maggiore Zakir (dapprima restio ad un rapporto tranquillo con lui, ma poi più affezionatogli, specialmente dopo l’ingiusto imprigionamento) al piccolo Reese, omertoso e colpevole d’aver occultato troppo a lungo lo spietato omicidio di Samir, dalla mastodontica Mamma Jenny, protettiva e benigna, al detective Garcia dell’FBI, incaricato di indagare sulla morte di Samir. Riesce addirittura a puntare il dito contro le magagne della burocrazia, senza però dimenticare il discorso etnico intorno all’accettazione della diversità culturale e anche i sentimenti appassionati e scevri di impurità nella gestione delle relazioni di coppia. Vale assolutamente la pena di vederlo in sala. Fra le scene più azzeccate, è doveroso citare: l’idea del giovanissimo Khan di utilizzare una bicicletta per pompare fuori l’acqua dopo l’alluvione nel cortile del maestro che gli dà lezioni private; le corse per i viali californiani di Khan e Mandira, coi loro frizzanti duetti a base di botta-e-risposta; il primo incontro nella casa buia e polverosa con Mamma Jenny e il figlioletto capellone; la sosta nel motel con l’aggressione dei passanti all’albergatore indiano; la dichiarazione accorata e veemente nell’atmosfera notturna del campo calcistico; la predica del primario-terrorista ai fedeli di Allah, con incitazione all’eliminazione fisica del nemico e conseguente denuncia di Khan nei confronti del sobillatore; la tortura psicofisica del protagonista all’interno del carcere federale. Leggermente ingolfato a causa degli indugi emotivi che richiamano senza volere la spudoratezza delle telenovele, ma capace di mantenere una strepitosa omogeneità generale, danza sul filo del rasoio fra divertimento, commozione, narrazione e piacere di raccontare una storia fuori dall’ordinario di cui il cinema ha bisogno ormai da tempo immemorabile. E il Khan attore, nel disegnare il Khan personaggio, merita da solo la spesa del biglietto: quando mai rivedremo un eroe così sicuro di sé, testardo, angelico e inarrestabile che non si fa sconfiggere né dal suo disturbo, né da barriere ad altri insormontabili? La dolcezza che pervade il film, solo a tratti zuccherosa e manierista, è una qualità che non gli difetta e che lo impreziosisce di un malinconico realismo.

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