Nel 1965,nel “Volo della Fenice”,Aldrich metteva sugli schermi e sul volto di Jimmy Stewart un cinema,la cui emotività con i suoi nuovi fermenti di un’epoca di trapasso,traduceva le inquietudini e le ansie di una società in fase transitoria dal periodo postbellico del decennio precedente ad una nuova era con i suoi germi di forte rinnovamento e novità creativa.
“Il volo della Fenice” è un intenso ritratto di un gruppo di persone messe a contatto con una natura nemica e avversa,messe in mezzo ad una serie di situazioni di critica straordinarietà dalle quali emergono gli aspetti interiori dei protagonisti.
Ai due Gerry di Gus Van Sant,persi nel deserto e senza più punti di riferimento,non resta che proseguire verso un orizzonte perduto come le loro speranze,avvolti dai suoni di un paesaggio avaro di vita e prodigo di abbandono.
Frank Marshall in “Alive” del ’93 rilegge le pagine stravolgenti della lotta per la vita dell’equipaggio dell’aereo che nel ’73 precipitò sulle Ande,lasciando ai superstiti la scelta di poter sopravvivere cibandosi dei propri compagni morti.
In “Frozen”,Adam Green raccoglie la futile leggerezza di un episodio vacanziero per ripercorrere le stesse zone d’ombra visitate dal cinema della sopravvivenza,gettando luce sulle reazioni nascoste nei recessi più insondabili di persone poste di fronte alle soluzioni da prendere per poter sopravvivere.
Come in “Open Water”,l’occasione per la storia viene fornito da un avvenimento generato dal caso,dal quale il regista trae lo spunto per una narrazione che trae profitto dalle condizioni interiori dei personaggi coinvolti nel racconto.
“Frozen” nasce dalla banalità di una circostanza tutta umana,un evento ordinario e del tutto casuale che si muta nella forma di un gioco fatale di equilibri fra vita e morte.
Dan (Kevin Zegers) e Joe (Shawn Ashmore),amici da sempre,si lasciano alle spalle i problemi di un’insipida quotidianità per cercare sulle piste di sci la spensieratezza di una passione che condividono.
In compagnia della fidanzata di Dan,Parker (Emma Bell),per la quale Joe nutre un frustrato sentimento che va oltre l’amicizia,gli amici decidono di tentare un’ultima discesa sulle piste,poco prima della chiusure serale,con l’accondiscendenza ben pagata dell’operatore dell’impianto.
Ma a metà salita,al calar della sera,la seggiovia si blocca e l’impianto si spegne,lasciando i tre ragazzi abbandonati in mezzo al nulla,seduti su una seggiovia ferma tra le montagne,con la notte in arrivo e senza sapere se e quando l’impianto potrà ripartire.
Le conseguenze di un errore umano sono,in “Frozen” spietate e mortali quanto un serial killer.
I tre ragazzi si trovano a dover far fronte ad un pericolo con le sembianze della natura,un ambiente ghiacciato,un gelo inclemente,neve e vento e l’angoscia che sgorga dalla disperazione di una situazione apparentemente senza via d’uscita.
Il nemico non è umano e Green è agile a modellare gli orrori inflitti da un avversario senza forma,in un gioco di psicologia e panico.
Nell’incipit le inquadrature insistono sul mezzo che si dimostrerà ostile,sublimando segnali di allarme in ossessive riprese avvicinate che insistono sull’impianto che porterà i ragazzi sul palcoscenico della paura : i cavi,le meccaniche,le ruote della teleferica,un meccanismo che sarà protagonista super partes e dominerà i destini dei protagonisti coinvolti nel tragico gioco di un fato visto come una ruota che gira con ineluttabile continuità.
I rumori,i suoni funesti della paura,la voce del ferro ghiacciato pervadono l’intera struttura narrativa,riempiendo le ampie immagini delle montagne innevate,della sinistra minaccia del pericolo imminente,un preludio ossessivo che ricorda il rantolo di una nave che affonda o di un animale pronto all’attacco.
Green imposta la successione degli eventi in modo mirabile,abile a scansare le meccaniche ripetitive dei clichès dei film di genere e la banalità stereotipata dell’horror televisivo.
Quando la seggiovia si ferma,il film comincia in un progressivo dualismo fra stasi visiva e dinamica filmica,con picchi di altissima tensione emotiva.
Il senso dell’orrore non è solo avvertibile dalla vista e pervade fittamente le righe di una narrazione costruita sui ritmi dell’attesa e dei silenzi o sulle fasi dialogali che si alternano in una continuità angosciante ai picchi di sgomento profondo.
“Frozen” vive e pulsa dell’abilità del regista di scandire il ritmo della narrazione con gli spettri di un pericolo multiforme ed invisibile,psicologico e letale,non carnale,ma altrettanto infido e sfuggente.
L’inquietudine sublimata nelle immagini,mai aggressiva e trash,accompagna il senso dell’udito in un’altalena fra inquadrature di spazi immensi e dialoghi pervasi dall’essenzialismo disperato di un attaccamento alla vita.
In “Frozen”,Green è maestro a comporre un vivido mosaico di forte umanità,venato dai fremiti della paura intangibile e dal senso del silenzio della natura,rotto dai sussurri di persone che parlano della vita che non vogliono perdere
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