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Horror Frames: Vertige e i film sulla natura contro

L'uomo animalesco contro l'uomo civilizzato.
di Rudy Salvagnini

Una scena del film Vertige.

martedì 25 gennaio 2011 - Approfondimenti

La natura è stata spesso rappresentata negli horror non come un bucolico paradiso di pace e serenità, ma come teatro di scontri selvaggi dove la brutalità e la legge del più forte hanno l'assoluto sopravvento. Una simile visione - se pur cruda - non è distante dalla realtà del mondo animale, fatto di catene alimentari e di scontro mortali a ciclo continuo. La particolarità è che negli horror - tranne qualche caso particolarissimo come l'australiano Long Weekend (1978) di Colin Eggleston e il suo omonimo remake del 2008 di Jamie Blanks - non è tanto la natura in sé a essere matrigna quanto l'uomo che, rimasto "troppo" a contatto con essa, è stato ridotto a una bruta animalità, senza più alcuna patina di civilizzazione a nasconderne e combatterne gli istinti predatori. Ovviamente, c'è chi - la maggior parte - dal contatto con la natura trae spunti per riflessioni pacifiche e magari quadri e poesie, ma non sono questi i personaggi che interessano all'horror. Dietro, infatti, alla rappresentazione di un selvaggio scontro che insanguina la bellezza del paesaggio c'è una riflessione sulla natura umana, su come sia sottile il diaframma posto dalla civiltà alle sue caratteristiche originarie e su come sia facile spazzare via i labili paraventi sociali. E così, se l'uomo animalesco rimasto in contatto con il suo lato selvaggio è un essere deviato e feroce, l'uomo civilizzato non comprende più l'ambiente extra-urbano, ne viene annichilito anche quando lo avvicina con le migliori intenzioni.
Il film che ha tracciato la strada è Un tranquillo week-end di paura, forse il capolavoro di John Boorman. Pur non essendo un horror, infatti, ha stabilito delle caratteristiche poi riprese, con varianti, da miriadi di horror successivi: persone comuni cercano l'immersione nelle meraviglie della natura, ma si scontrano con la brutalità dei suoi abitanti. Se Boorman si mantiene strettamente nei limiti della credibilità e di un realismo assai disturbante, gli horror vanno generalmente per la tangente ed enfatizzano, spesso cercando motivazioni più o meno pretestuose, la mostruosità degli abitanti della natura selvaggia. Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, con i suoi sequels e remake, è un classico esempio in questo senso e ha indicato un percorso narrativo seguito da molti altri film, tra cui vale la pena ricordare almeno Wrong Turn di Rob Schmidt (e i suoi sequels). Non sono mancati però gli horror che hanno seguito il sentiero del crudo realismo di Un tranquillo week-end di paura ottenendo talvolta risultati straordinari, come nel caso di Eden Lake di James Watkins.
Tra gli ultimi esempi di questo filone, si segnala il francese Vertige dell'esordiente Abel Ferry, che testimonia ancora una volta la buona salute dell'horror transalpino, capace di dare varietà alle proprie tematiche e di mantenere una buona resa spettacolare. Lo spunto di partenza della trama è dato dal desiderio di affrontare sfide sempre più avventurose e di abbinare il contatto con la natura al carico di adrenalina che solo il pericolo - che si pensa di poter dominare - può dare.
Cinque amici - Chloé, Loïc, Guillaume, Fred e Karine - sono arrivati in montagna per dedicarsi a una scalata spericolata. Hanno infatti deciso di affrontare una ferrata abbandonata, chiusa per problemi di manutenzione. La sconsideratezza e la spavalderia sono ancora più colpevoli in considerazione della presenza del giovane e inesperto Loïc, che ha accettato di venire solo per seguire la fidanzata Chloé, affiatatissima con il resto del gruppo. Il fatto che tra i partecipanti ci sia Guillaume - ex di Chloé tornato in contatto col gruppo solo da poco - non fa che accrescere ripicche e tensioni. La traversata di un ponte di corda sospeso nel vuoto di uno strapiombo per poco non si trasforma in dramma: il ponte cede, ma tutti riescono ad arrivare dall'altra parte. Solo che ora la via del ritorno è preclusa e si ritrovano intrappolati in una zona impervia e pericolosa. Quanto sia pericolosa però non lo sanno nemmeno loro: infatti non sono soli lassù e la compagnia non si rivelerà per nulla piacevole.
Il film presenta due anime ben diverse unificate non senza fatica. Nella prima, affronta con bravura le dinamiche psicologiche del gruppo inserendole nel contesto di una natura dalla bellezza mozzafiato, la cui pericolosità è sempre direttamente connessa all'arroganza e all'audacia priva di ragionamento dei protagonisti. In questa prima metà del film, Ferry gestisce con grande abilità l'azione e riesce a creare una notevole suspense, grazie anche a riprese spericolate e assai efficaci che creano un senso di vertigine nello spettatore, spesso difficile da sostenere, La seconda parte, invece, cerca di recuperare la dimensione horror, ma lo fa in un modo poco originale, disperdendo gran parte del fascino accumulato in precedenza. Il confronto con la brutale minaccia boschiva - se cerca un qualche minimo approfondimento motivazionale - rimane largamente routinario con più di qualche scivolata in quel cinema della crudeltà che ormai sembra aver fatto il suo tempo. Non mancano comunque alcune svolte narrative di buona sostanza per sostenere la suspense e resta meritorio il tentativo di mantenersi aderente a un realismo il più possibile credibile. Solo che il comportamento dei protagonisti nella fase finale rasenta fin troppo spesso la tipica stupidità di tanti personaggi degli horror di seconda categoria e non aiuta nemmeno il sottofinale, poco convincente. Nell'insieme però il film merita una visione e ottiene il massimo, sotto il profilo spettacolare, da ambientazioni suggestive e di bellezza stupefacente.

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