C'è qualcosa che non leggo in tutte le recensioni che pure condivido, che non ho letto neanche in alcune recensioni americane. Può darsi che io mi sbagli, ma la fine del film mi pare sottovalutata.
Il figlio, su cui la storia apre, che vediamo correre per gran parte del film, perché inseguito dal compagno-bullo-creditore, ha finalmente recuperato i soldi e può restiturglieli: sta per mettere fine ai suoi affanni.
Ma quando va per approcciarlo, il compagno-bullo-creditore non è più interessato a lui. Un uragano è all'orizzonte, e di fronte all'incombente minaccia, quel che in tutto il film ci ha preoccupati,
attraverso il ragazzino, non ha più importanza. Avviene subito dopo la telefonata del medico al padre, che ci suggerisce che un altro uragano sta per travolgerlo: una malattia, perlomeno grave.
Il film aveva un prologo curioso: una narrazione probabilmente inscritta nel libro delle storie ebraiche, a cui loro - "Ma noi siamo fortunati perché abbiamo il libro", mi pare dica così - possono attingere.
Una donna, seppure di fronte all'evidenza, continua a credere a quel che le era stato raccontato: neppure il sangue la fa desistere.
Ecco, proverei a guardare il film da qui. Per leggere questa storia: il figlio e il padre contemporaneamente ci vengono presentati. Li seguiremo in tutte le loro peripezie - che a tratti
mostrano sfumature alla Fantozzi - il padre alle prese con una comunità aggressiva, che piano piano, dalla moglie all'amante, fino alla compagnia che gli impone i dischi - lo logora e lo porta a cedere all'espediente, cancellando ogni resistenza della sua morale, e cedendo all'esigenza. Il figlio sgamato dal maestro, aggredito dalla sorella, minacciato dal compagno-bullo-creditore, costretto a un rito che lui fa coincidere con l'unico in cui crede: fumare.
Ma tutto quello che ci avvilisce, e ci fa ridere - ecco Fantozzi - cambia aspetto di fronte alla nuova prospettiva: l'uragano.
Così che io credo che il primo rabbino davvero dia la chiave di lettura della storia. E il nostro protagonista, il padre, fumando uno spinello ce lo dice: aveva ragione il primo rabbino.
La prospettiva, dunque.
Perché tutto non è che un condizionamento mentale, ambientale, culturale: contingente.
Da questa angolazione anche la storia del dentista è solo apparentemente priva di senso: una periodica fissazione di leggere un senso specifico in una casualità che si risolve solo
non pensandoci più.
Il primo rabbino ci dà la chiave, il secondo ci racconta la parabola, il terzo ci riconsegna la radiolina, risolvendo uno dei problemi che ci affligge dall'inizio senza una parola.
Così, attraverso i rabbini i Coen ci raccontano di un quotidiano in cui affoghiamo, persi nel provare a galleggiare in un occidente che è solo all'inizio di una voragine di individualismo.
Ma il peso del nostro patire cambia del tutto di fronte alla morte. Scopriamo di vivere temendo sempre il maligno, il dybbuk, non riconoscendo così più la vita, se non perdendola.
E quel che ci ha spinti a patire credendo giusto uccidere, corrompere, ci suggeriscono i Coen, non è che un punto di vista - il parcheggio... - in definitiva: una sciocchezza.
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