A quattro anni dal (quasi) capolavoro Ghost in the Shell: Innocence, Oshii ritorna con un’altra opera d’animazione non adatta a tutti, probabilmente a tratti un po’ ostica e difficile da mandar giù, ma assolutamente imperdibile.
Adattando il romanzo omonimo (primo di cinque) di Hiroshi Mori, la sceneggiatrice Chihiro Ito offre al regista la possibilità di confrontarsi ancora una volta con tanti dei temi a lui cari, in parte già visti nei due Ghost in the Shell (ma non solo): il concetto di “dicotomia” (tanto nei protagonisti quanto nello scenario in cui si muovono, marcato da un eterno conflitto tra due multinazionali dell’industria bellica: la Rostock e la Lautern, delle quali non vengono mai specificate le motivazioni), la ricerca d’identità (attraverso la quale il protagonista Yuichi Kannami arriverà a svelare una terribile verità), il ruolo dei media nel sollevare gli animi (suggerendo, tra le righe, un probabile legame con The Truman Show) e, soprattutto, l’assurdità e insensatezza della guerra, che però serve per mantenere gli equilibri su cui da sempre si fonda la sopravvivenza del genere umano (“Avere sempre guerre ha una funzione. Quella di alimentare l’illusione di pace della nostra società”, dice la comandante Suito Kusanagi a Kannami). Attraverso la condizione dei kildren emerge poi una riflessione non banale sulla memoria, sul tempo, la sua relatività e soggettività, e viene inoltre veicolato un’importante messaggio alle giovani generazioni ma non solo: “anche se la vita fosse eterna, l’oggi è diverso dallo ieri e il domani sarà diverso dall’oggi, e nell’apparente monotonia della quotidianità è invece sempre possibile vedere cose nuove e trarre il meglio da quello che sembra un destino già scritto” (G. Tavassi).
E al di là delle tematiche, a lasciare stupiti e ammaliati è sicuramente il modo in cui vengono trattate, totalmente inusuale per un film d’animazione: alle concitate scene di battaglia (realizzate in una straordinaria animazione digitale 3D quasi fotorealistica), si alternano infatti sequenze ben più contemplative e dal ritmo lento e riflessivo (realizzate stavolta in animazione tradizionale), in cui vengono approfonditi i rapporti tra i personaggi. Va così a crearsi un contrasto anche visivo tra le due parti del lungometraggio.
Oshii, poi, per mezzo di alcune accurate scelte di regia, trasmette allo spettatore una generale sensazione di malessere, tristezza, che deve essere la stessa che attanaglia i kildren, o quantomeno quelli con una qualche consapevolezza della propria natura. L’atmosfera straniante e malinconica è poi magnificamente accentuata dalla bellissima colonna sonora di Kenji Kawai.
The Sky Crawlers è insomma un altro piccolo, grande capolavoro nella filmografia del regista, che solleva interrogativi importanti, non imponendo risposte e lasciando invece alla sensibilità dello spettatore l’interpretazione di quello che viene mostrato sullo schermo. Un anime inconsueto e, proprio per questo, assolutamente irrinunciabile per qualsiasi appassionato del genere ma anche per qualunque appassionato della fantascienza “filosofica” alla Philip K. Dick o, in ambito cinematografico, alla Arancia Meccanica. Presentato in concorso alla mostra del cinema di Venezia, dove ha vinto il Future Film Festival Digital Award, e molto premiato nei festival di settore, in Italia viene però relegato all’uscita in home-video, senza passare prima dalla distribuzione nelle sale. Non perdere la breve sequenza di chiusura al termine dei titoli di coda.
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