Revolutionary Road

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Un film di Sam Mendes. Con Kate Winslet, Leonardo DiCaprio, Kathryn Hahn, David Harbour, Ryan Simpkins.
continua»
Titolo originale Revolutionary Road. Drammatico, durata 119 min. - USA, Gran Bretagna 2008. - Universal Pictures uscita venerdì 30 gennaio 2009. MYMONETRO Revolutionary Road * * * - - valutazione media: 3,08 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Altro che Titanic, stavolta Kate e Leo naufragano in salotto

di Emilio Marrese Il Venerdì di Repubblica

Il disfacimento della coppia nell'amaro capolavoro di Richard Yates che ora arriva sugli schermi. Firmato dal «genio» Sam Mendes e interpretato da una donna eccezionale. La sua.
Kate e Leo sono diventati grandi, soprattutto come attori, e da ragazzini so gnanti sulla prua del Titanic si sono ritrovati, infelicemente ,sposati, in una villetta della linda e ipocrita periferia americana. Dodici anni dopo il kolossal che li rese famosi, la Winslet e DiCaprio tornano assieme in Revolutionary Road (in 'sala dal 30 gennaio perla Universal Pictures International), tratto da un grande libro di Richard Yates del '61 e diretto da Sam Mendes, 43 anni, Oscar per American Beauty (che ebbe anche altre quattro statuette) nonché marito della Winslet, già premiata col Golden Globe come miglior attrice per questo film. L due sono nati nella stessa cittadina inglese, Reading, nel Berkshire. Revolutionary Road è molto più tragico e angosciante di Titanio. «Senza dubbio» sorride il regista Sam Mendes. Che ha girato con ritmo e raffinatezza senza mai cadere nel patetico, sottraendo molto: «Titanio è un bellissima favola romantica. La natura di questo film è fondamentalmente diversa: è più cupo, più difficile da assorbire. Richiede più fegato, dà meno speranza. Un film così scuro aveva bisogno di due attori famosi, sennò non lo va a vedere nessuno. È per questo che finora questo libro non era ancora stato portato al cinema». Forse Winslet e DiCaprio han, no fornito la miglior performance delle loro carriere. «La cosa interessante è che fanno cose mai fatte prima. In particolare Leo ha il ruolo di un uomo debole, bugiardo e manipolatore.
Mi ha colpito che non abbia mai avuto dubbi sul personaggio: non mi ha chiesto di renderlo migliore, più eroico. Aveva tutto da perdere: non ne esce certo come un figo. Parlare di Kate per me è difficile: non posso dire che sia il suo lavoro migliore, ma certo uno dei più completi».
Ha scoperto qualcosa che ignorava di lei, sul set?
«Che sapesse litigare così bene lo sapevo già. Che fosse così ossessionata dai dettagli, no. Ogni tanto le davo un'occhiata e vedendo la sua faccia, senza trucco, capivo che non era la sua: era posseduta dal personaggio. Ha lavorato con dei registi incredibili e per tutto il tempo pensavo "speriamo che mi trovi bravo quanto loro". E lei "speriamo che Sani mi trovi brava come le altre sue attrici". È stato un sollievo per entrambi non rimanere delusi».
Kate è il cuore del progetto: ha scelto la sceneggiatura e ha indicato lei come regista e DiCaprio come protagonista. Considerando che è sua moglie, s'è sentita autorizzata a interferire un po' di più nella regia?
«Tutto vero, ma proprio perché era conscia di questa situazione non interferiva per nulla: ci siamo parlati molto meno del solito, in quel periodo. Non mi parlava sul set perché poi la gente avrebbe pensato che veniva a dirne come fare. Era consapevole che anche Lea potesse pensare che mi manipolasse. Dopo un paio di settimane però ci siamo rilassati di più».
Aveva dichiarato che non voleva lavorare con sua moglie, citando esempi negativi, nella vita privata, come Vadim-Bardot o Rossellini-Bergman. Perché ha cambiato idea?
«Dicevo che non era necessario per funzionare assieme come coppia. E infatti abbiamo aspettato sei anni.
Siamo più forti adesso, più vicini: non è stato per niente distruttivo. Molte di quelle coppie famose si sono conosciute sul set, c'era una relazione basata sul potere. Per noi non è mai stato così».
La sceneggiatura, dai dialoghi superbi, è molto fedele al libro.
«È la prima volta che lavoro con una sceneggiatura così ferrea e faccio un film basato su un grande pezzo di letteratura. È un grande romanzo e l'ho trattato con rispetto. I testi e le descrizioni sono così perfetti che dovevo solo seguire i comandi dell'autore. Mi sono ispirato al primo Mike Nichols e a Bergman. La loro semplicità, la macchina che si muove poco, quel senso di vicinanza tra spettatore e attore. In nessun altro film sono stato meno preoccupato di avere momenti stilistici o scene ad effetto».
È dura dimostrare a Hollywood che si può fare un film all'europea senza camera a mano?
«Sì, io sono all'antica. Non impongo il mio stile, ma vedo cosa chiede la sceneggiatura. Per me i grandi registi europei sono quelli degli anni 70: Bergman, Polanski. Non ho affinità con la scuola Dogma o col digitale alta definizione. A me piace la grana della pellicola, guardo più volentieri Morte a Venezia di Festen. In America mi accusano di essere europeo, in senso negativo: freddo e distaccato perché non sparo la cinepresa in faccia all'attore mentre piange, ma per me si tratta di gusto. Non mi piace, da spettatore, che mi dicano quali emozioni provare. Gli europei amano le ambiguità. L'oggettività è considerata buona in un film in Europa, mentre a Hollywood è vista come freddezza».
Ma lei ci crede nella famiglia?
«Cinque anni fa avrei detto di no. Ora ho la mia e non penso al mondo come Richard Yates. Ammiro la sua visione, ma la mia è molto meno cupa di quel che sembra dai miei film. Perciò il prossimo sarà una commedia. Sono un ottimista. American Beauty e Revolutionary Road sono molto diversi, ma alla fine dei conti il messaggio è: prenditi cura delle cose che hai. Non dico che tutte le famiglie sono costruite sulle bugie. Non faccio una crociata. Spero che si esca dal cinema pensando "per fortuna non sono io in quella situazione" e si guardi la vita con un po' più di leggerezza».
Ha appena debuttato a New York col «Giardino dei ciliegi»: cosa le dà in più il teatro?
«Certo non soldi, ma un'altra ricchezza. Il teatro è un bagno caldo, il cinema una doccia: ti lavi in fretta, è efficiente, ma non puoi prenderti il tuo tempo, è brutale. Se un film è brutto puoi dare la colpa al regista. A teatro è più il mezzo degli scrittori e degli attori, il regista è più un interprete. Il film è un caos, la sceneggiatura è tutta aggiustamenti, cambiamenti, tagli. Cechov è Cechov, e se sei bravo forse per qualche istante riuscirai a raggiungerne la grande arte: Ilgiardino dei ciliegi è un capolavoro, molto meglio di qualsiasi cosa potrò mai creare in un film».
È difficile crescere da ragazzo prodigio della regia?
«Oh sì. L'ultima volta che mi hanno chiamato così è stato due anni fa: a 41 anni… Ho fatto crescere apposta la barba e i capelli grigi. Vincere un Oscar all'esordio crea aspettative enormi, quando invece vorresti sperimentare. In teatro ho impiegato dieci anni per trovare la mia strada. Nel cinema sto iniziando a capirla ora e per riuscirci ho fatto un film di gangster, uno di guerra, uno famigliare, una commedia…
Cerco di non ripetermi e di non ripetere American Beauty, che pure mi ha regalato una carriera e, a meno che non faccia grandi cazzate, mi accompagnerà finché potrò reggere una cinepresa».
Una volta ha detto che nella regia si è ispirato al cricket: forse è il caso di spiegare…
«Ero il capitano di una squadra, ero molto bravo e avevo molta autorità. Sin da giovane mi sono abituato a dirigere persone più anziane ottenendo il loro massimo. Teatro e cinema a volte sono così».
Se sua moglie vince l'Oscar, ma per The reader di Stephen Daldry, ci va al party?
«Sicuro. Se Kate vince qualcosa, non importa cosa: salto su e urlo. È un anno incredibile per lei. Potrebbe vincere anche leggendo ad alta voce l'elenco telefonico».
Da Il Venerdì di Repubblica, 23 gennaio 2009

di Emilio Marrese, 23 gennaio 2009

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