Il sangue dei vinti

Cara Rani, il revisionismo, quello con la maiuscola intendo, applicato al genere western ha permesso al grande pubblico di guardare con occhio diverso agli indiani d'America: un tempo "ombre rosse" minacciose e poi, grazie a un sano processo di onestà e coscienza, leggittimi proprietari morali del suolo statuninetense strappatogli con la forza di armi superiori dai coloni. Film come "Soldato blu", pur con la sua elementare retorica e scontata cruenza, "Il piccolo grande uomo" e "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" hanno destrutturato il mito della Frontiera che gli yankee vincitori hanno eretto per giustificare le effertezze compiute nei confronti dei vinti pellerossa anche al termine dei numerosi conflitti. "Il sangue dei vinti" doveva, per forza di cose, smontare il mito della Resistenza, metterne in luce le zone d'ombra al fine d'andar oltre la storia raccontata dai vincitori. Alle fonti di quella storia la critica cinematografica attinge ormai da sessant'anni e più; è, quindi, inevitabile che il film sia stato bistrattato, vituperato e schernito a priori. Gli interessi in gioco nel cinema sono anche più in alto di quelli in ambito lettarario, dove invece l'omonimo libro di Pansa ha fatto breccia. Se ciò fosse avvenuto pure nella cosiddetta "fabbrica dei sogni", il sonno di molti, finti paladini della libertà di espressione sarebbe stato popolato da incubi. Ciò nonostante, sono sicuro che, prima o poi, quest'equo filone farà breccia sugli schermi e permetterà di vedere ai fatti, mesti e tragici, del Secondo Conflitto Mondiale sotto un'ottica diversa, al di là dei giochi delle parti avverse, fuori dalla prigionia della logica, della convenienza e dell'opportunismo più ipocrita, secondo Giustizia.