Roberto Nepoti
La Repubblica
Sempre più spesso, il cinema americano mette in scena i conflitti dell'era Bush: a volte con sincero spirito autocritico, in altri casi ricorrendovi come a una risorsa garantita per fare spettacolo. A rappresentare i due estremi basterebbero "Standard Operating Procedure", il documentario di Errol Morris su Abu Ghraib non ancora arrivato in Italia, e Rendition, il cui titolo allude alle "extraordinary rendition": il rapimento di persone potenzialmente pericolose per la sicurezza, rinchiuse in carceri segrete fuori del territorio Usa e torturate.
Cittadino americano di origine egiziana, Anwar El-Ibrahimi si volatilizza durante un viaggio aereo tra Città del Capo e Washington. È ingegnere chimico e come tale (ma non soltanto) sospetto della progettazione di ordigni per attentati terroristici. Mentre Isabella (Reese Witherspoon), moglie in dolce attesa, chiede aiuto a un antico compagno di studi, attuale assistente di un senatore, facciamo conoscenza con una piccola folla di altri personaggi: l'agente della Cia Freeman (Jake Gyllenhaal), sull'orlo di una crisi di coscienza per le brutalità di cui è stato testimone in una prigione segreta del Nordafrica; la signora Whitman (Meryl Streep), duro capo dell'agenzia; Abasi Fawal, capo dei torturatori con problemi di famiglia: sua figlia, l'adolescente Fatima, è innamorata di un giovanissimo jihadista.
Lontano dall'indignazione senza compromessi di "Redacted", il film di Brian DePalma che vedremo tra poco, o dallo zelo didascalico del Robert Redford di "Leoni per agnelli", quello di Gavin Hood è un dramma pensato soprattutto in funzione spettacolare, con in più il benefit implicito di una patina d'"impegno". La morale, elementare, si può sintetizzare in una formula: i giovani sono buoni, i più anziani no. Anche la direzione del regista sudafricano, cooptato da Hollywood dopo l'Oscar al migliore film straniero per "Tsotsi", è saggia, tradizionale e non turba le abitudini del pubblico (confronta ancora, a contrario, il film di DePalma).
C'è però una caratteristica piuttosto sorprendente, che rende il film meno ovvio di quanto i detrattori vogliano ammettere; e si colloca sul piano delle strategie narrative. Tutto il racconto gravita, infatti, intorno a un attentato dinamitardo nella piazza di una città nordafricana. La pratica del film a molti personaggi, con episodi convergenti e diversi punti di vista, quasi inflazionata nel cinema più recente, ci ha abituati a pensare che i vari fatti avvengano in contemporanea.
La sceneggiatura di Kelley Sane, invece, spariglia le nostre presupposizioni di spettatori abituati a dare pigramente per scontato ciò che non lo è. Meglio non aggiungere altro: i più smaliziati drizzino le antenne sui "tempi" narrativi del film; gli altri si godano la sorpresa. Cast assemblato senza risparmio, ma interpretazioni non entusiasmanti: se la strapagata Reese è ai minimi sindacali della tipologia "mogliettina in ambasce", Jake pare ancor più spaesato di quanto richiederebbe il ruolo.
Da La Repubblica, 29 febbraio 2008
di Roberto Nepoti, 29 febbraio 2008