Redacted

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Un film di Brian De Palma. Con Kel O'Neill, Ty Jones, Izzy Diaz, Rob Devaney, Patrick Carroll (II).
continua»
Guerra, durata 90 min. - USA, Canada 2007. MYMONETRO Redacted * * * 1/2 - valutazione media: 3,73 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

De Palma « Ecco il mio film sull'Iraq che al cinema non vedrete».

di Federica Lamberti Zanardi Il Venerdì di Repubblica

Una base americana, una quindicenne violentata da quattro soldati. È la storia vera di «Redacted», che andrà solo in pay-tv perché nessuno voleva distribuirlo. Dice il regista: «Faccio paura e non vinco mai Oscar, ma almeno sono libero».
Quando ho cominciato a girare questo film, sapevo che sarei finito nei guai. Stavo per colpire l'icona più sacra in America: le truppe. Qualsiasi cosa si dica contro la guerra, non si può parlar male dei soldati, dei "nostri ragazzi". Se lo fai, diventi subito un radicale di sinistra, un comunista». Brian De Palma è un uomo ironico. I guai di cui parla sono quelli che ha passato con la stampa americana, cui non è piaciuto il suo Redacted, che, invece, è stato premiato all'ultimo festival di Venezia con il Leone d'argento. Ma anche guai di distribuzione che il film ha avuto in Italia e che gli hanno impedito di uscire nelle sale finendo direttamente (da una settimana) sulla pay per view di Sky. Acquistato, quando ancora era solo una sceneggiatura, dalla A. E. Media di Gabriele Andreoli, il film di De Palma doveva essere distribuito insieme alla più potente Eagles. Ma in autunno la società è stata venduta e il cambio di proprietà ha fatto saltare l'accordo con A. E. Media. Risultato? Non è stato più trovata una casa di distribuzione che garantisse una buona uscita al film, così è stato più vantaggioso venderlo a Sky, che ha comunque quattro milioni e mezzo di abbonati.
Girato come un videotape, Redacted è un film potente e scioccante, una sorta di seguito, diciotto anni dopo, di Vittime di guerra, dove De Palma raccontava il conflitto in Vietnam. Ricostruisce la storia vera dello stupro di una ragazzina irachena di quindici anni, compiuto da quattro soldati americani. La ragazza sarà poi uccisa in un modo atroce con tutta la sua famiglia. Le immagini terrificanti del suo corpo umiliato e bruciato, le confessioni davanti alla macchina da presa dei soldati, le condizioni di vita estrema in cui le truppe americane vivono nelle basi irachene, imbottiti di stimolanti e di calmanti, sempre al limite della sanità mentale, fanno di Redacted un documento sulla brutalità della guerra, nel quale è difficile distinguere fa vittime e carnefici.
Il suo ultimo film è stato Black Dahlia, completamente diverso, sia per stile sia argomento, da Redacted. Cosa l'ha portata a scegliere un tema così scottante?
«Sono un uomo molto curioso. Voglio scoprire cosa accade davvero intorno a me. Soprattutto quando vedo qualcosa che mi sembra assolutamente ingiusto e di cui nessuno si occupa. Quello che racconto nel film era già tutto su Internet: la storia dello strupro della ragazzina, il massacro della sua famiglia, la condizione di alterazione della coscienza in cui vivono i soldati americani, imbottiti di eccitanti e droghe e costretti a lavorare in uno stato di allarme costante. Ai check point in Iraq sono state uccise per errore duemila persone; di queste solo sessanta in seguito sono risultate sospette, nemmeno colpevoli. I filmati di queste stragi sono su YouTube, come le foto dei bambini uccisi dal fuoco americano».
Perché non ha semplicemente girato un documentario, usando materiale vero?
«Prima di tutto perché ottenere la liberatoria di certi filmati e fotografie che girano su Internet è complicatissimo. E poi perché sono un regista, mi piace "drammatizzare" quello che racconto. Sono sempre interessato al modo in cui una storia viene comunicata, ai filtri attraverso i quali passa, che finiscono per modificarla. Così ho deciso di raccontare i fatti attraverso i protagonisti e ho usato i loro filtri».
Ha parlato con qualcuno dell'esercito americano?
«Sì, con molte persone. E, comunque, già per Vittime diguerra, nel 1989, avevo ascoltato i racconti dei soldati in Vietnam. Devo dire che erano molto simili a quelli dei loro colleghi in Iraq oggi».
È andato in Iraq a vedere con i suoi occhi la situazione?
«No. Ma quante volte ci è andato Donald Rumsfeld quando era Segretario alla difesa di Bush? Quanti degli "architetti" di questa guerra sono andati a valutare sul campo "i progressi" fatti in Iraq? E dovremmo credere ai resoconti di quei senatori che vengono impacchettati e spediti su un aereo, trasportati direttamente in un base e, poi, rimandati di corsa indietro?».
Pensa, onestamente, che il suo film riuscirà in qualche modo a smuovere le coscienze del popolo americano?
«Spero di sì. Questo film è stato prodotto dalla HdNet Films, il cui business più importante è una tv via cavo; così penso che sarà visto da moltissima gente».
Si ha l'impressione che la società americana, rispetto agli anni Sessanta quando scendeva in piazza contro la guerra in Vietnam, ora sia meno non consapevole. Perchè?
«Perché la gente non sa quello che accade. Tutti ascoltano la propaganda di Bush e non conoscono la verità. Metà della gente pensa che Saddam Hussein sia responsabile della catastrofe dell'11 settembre. Se si continua a ripetere una bugia continuamente, alla fine la gente ci crede».
Ad ascoltarla, sembrerebbe che in America ci sia una specie di regime.
«Sì, esatto. C'è una dittatura. La cosa paradossale è che, anche ora che è diventato tanto difficile sostenere la guerra- perché sta andando male e perché se ne sono svelate le vere ragioni - Bush riesca a portare avanti lo stesso conflitto. L'unica speranza sono le prossime elezioni presidenziali».
Se la verità non viene fuori è anche colpa della stampa?
«Certo. I presunti cani da guardia sono stati comprati: li hanno arricchiti, ognuno ha il suo talk show. È così che si soffoca il cambiamento. Ancora non mi capacito di come l'amministrazione Bush sia riuscita a far bere agli americani la balla delle armi di distruzione di massa. È accaduto solo grazie alla complicità dell'informazione».
Eppure la stampa americana ha sempre dato lezioni di libertà al resto del mondo.
«Non è più così. Le faccio un esempio: Lewis Libby, assistente di Dick Cheney, dà informazioni a Judith Miller, reporter del New York Times e premio Pulitzer, sulle pericolosissime armi di distruzioni di massa e il giornale le pubblica. Poi Dick Cheney va in tv e dice: vedete, il New York Times ha scritto che ci sono le armi di distruzione di massa. Le sembra informazione libera?»
Sta pensando di farci un film?
«Sì, ho molte idee. La cosa più notevole che ho visto negli ultimi trent'anni è la corruzione del quarto potere, che ha portato alla catastrofe in cui ci troviamo. Vorrei raccontare la collusione fra stampa e politica. Sono stati pubblicati molti libri su questo. È stupefacente: tutto è già scritto ma nulla cambia».
Però il cinema di denuncia esiste, ci sono Michael Moore, Robert Redford...
«Infatti. Per la stampa Usa anch'io sono diventato pericoloso. Una specie di Michael Moore».
Come le piacerebbe essere definito?
Il New York Times ha scritto: "Ogni volta che si nomina Brian De Palma, bisogna prepararsi a una scazzottata". Sono un cane sciolto. Ho sempre criticato l'establishment e ciò non mi ha favorito: non ho mai ricevuto una nomination all'Oscar, i miei lavori non sono mai stati mostrati all'American Film Institute. Ma sono un uomo libero».
Da Il Venerdì di Repubblica, 21 marzo 2008

di Federica Lamberti Zanardi, 21 marzo 2008

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