mario scafidi
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martedì 19 febbraio 2008
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schnabel il migliore
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La vita, nonostante tutto. Jean Dominique Bauby (Mathieu Amalric), capo redattore della rivista “Elle”, viene colpito improvvisamente da sindrome "locked-in". il rarissimo morbo costringe il malato, vigile e psichicamente presente, all’interno di un corpo interamente paralizzato. Solo la palpebra dell’occhio destro di Jean Do si muove, e con quella impara a comunicare. Al capezzale di Bauby accorrono le sue donne (tra queste la musa di Roman Polanski Emanuelle Seigner ), qualche amico, il padre malato (Max Von Sydow), ed i tre figli. Un film bello in maniera insopportabile. Non può nemmeno dirsi che “Lo Scafandro e la Farfalla” sia un film unico nel suo genere. È unico e basta, esiste il cinema, l’altro cinema, ed esiste “Lo Scafandro e la Farfalla” che è un’esperienza emotiva a sé stante.
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La vita, nonostante tutto. Jean Dominique Bauby (Mathieu Amalric), capo redattore della rivista “Elle”, viene colpito improvvisamente da sindrome "locked-in". il rarissimo morbo costringe il malato, vigile e psichicamente presente, all’interno di un corpo interamente paralizzato. Solo la palpebra dell’occhio destro di Jean Do si muove, e con quella impara a comunicare. Al capezzale di Bauby accorrono le sue donne (tra queste la musa di Roman Polanski Emanuelle Seigner ), qualche amico, il padre malato (Max Von Sydow), ed i tre figli. Un film bello in maniera insopportabile. Non può nemmeno dirsi che “Lo Scafandro e la Farfalla” sia un film unico nel suo genere. È unico e basta, esiste il cinema, l’altro cinema, ed esiste “Lo Scafandro e la Farfalla” che è un’esperienza emotiva a sé stante. Julian Schnabel ha fatto un lavoro di regia mai visto prima: una soggettiva lunga quanto tutto il film (o quasi), colori accesissimi, come falsati dalla percezione del protagonista, continue sfocature e voci fuori campo. Il regista ha voluto farci entrare nel corpo del protagonista, il pesante scafandro inerte e senza vitalità, per poi proiettarci traumaticamente nel mondo della sua fantasia, dell’immaginazione, in una fuga dalla realtà sulle ali della farfalla del pensiero. La pellicola è candidata a quattro Oscar (tra cui miglior regia; piccola postilla: solitamente l’Academy dà l’accesso alla nomina per la miglior regia ad uno dei film non candidati come Miglior film come tributo, ed ideale candidatura nella maggiore categoria; così era, ad esempio, accaduto sei anni orsono con “Mulholland Drive”, troppo “oltre” per entrare nella cinquina del best motion picture, ma idealmente inserito con il suo posto tra i nominati per la miglior regia); Julian Schnabel è già stato premiato per questo film a Cannes ed agli ultimi Golden Globes.
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(di matteo78)
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la contessa scalza
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lunedì 25 febbraio 2008
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il senso della vita
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Non ci sono molte parole e molte cose da dire su " Lo scafandro e la farfalla", se non che è un film che tutti dovremmo vedere per capire la vita. Il film è un'esperienza toccante dal primo minuto, un esperienza che come spettatore vivi dal corpo del protagonista, seguendo il suo percorso di solitudine e dolore, un percorso intenso e toccante che ti porta a capire che la nostra esistenza non sono le cose che ci circondano ma che la vita siamo noi stessi con i nostri sentimenti e con i nostri ricordi.
La storia è quella vera di Jean-Dominique Bauby, caporedattore di Elle France, un uomo in carriera circondato da donne bellissime e da una vita decisamente chic e glamour.
Quando Jeando (come lo chiamano gli amici) viene colpito dalla Locked-in-syndrome la sua vita si piega improvvisamente e drasticamente alla malattina, una malattina che lo vede paralizzato dalla testa ai piedi con la sola facoltà di battere una palpebra.
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Non ci sono molte parole e molte cose da dire su " Lo scafandro e la farfalla", se non che è un film che tutti dovremmo vedere per capire la vita. Il film è un'esperienza toccante dal primo minuto, un esperienza che come spettatore vivi dal corpo del protagonista, seguendo il suo percorso di solitudine e dolore, un percorso intenso e toccante che ti porta a capire che la nostra esistenza non sono le cose che ci circondano ma che la vita siamo noi stessi con i nostri sentimenti e con i nostri ricordi.
La storia è quella vera di Jean-Dominique Bauby, caporedattore di Elle France, un uomo in carriera circondato da donne bellissime e da una vita decisamente chic e glamour.
Quando Jeando (come lo chiamano gli amici) viene colpito dalla Locked-in-syndrome la sua vita si piega improvvisamente e drasticamente alla malattina, una malattina che lo vede paralizzato dalla testa ai piedi con la sola facoltà di battere una palpebra. Questa palpebra e una caparbia ortofonista aiuteranno Bauby a creare un modo di comunicare col mondo esterno, un nuoivo alfabeto che lo aiuteràa comporre un libro sul percorso doloroso e illuminante verso la speranza. Lo stato di disperazione e il senso di soffocamento iniziale, lo scafandro appunto, si schiuderanno verso la condizione di farfalla, la condizione nella quale il corpo non serve più ma a sopravvivere basta la propria anima coi ricordi, coi sogni e con l' immaginazione come un collage di fotografie e pensieri. Ed è per questo che il film è estremamente toccante, perchè lo si guarda come si sfoglierebbe un album di vecchie fotografie, lo si percepisce dal punto di vista del malato proprio guardando attraverso il suo occhio che si appanna quando si commuove proprio come quello tuo di spettatore.
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leonardo masieri
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lunedì 19 maggio 2008
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un corpo che non c'è piu'ma una mente che viaggia
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Jean Dominique Bauby (Mathieu Amalric) è colpito dalla locked in syndrome che dopo un ictus lo costringerà per il resto dei suoi giorni a vivere immobile,su un letto di un ospedale della provincia francese. Bauby riesce in condizioni disastrose ad oltrepassare la mutezza del suo corpo ( lo scafandro appunto ) con l'unica parte del corpo che reagisce al suo cervello, l'occhio; con un battito di ciglia ( la farfalla dell'immaginazione che nasce e spazia in un mondo a se stante)riuscirà, grazie alle sue splendide donne, a scrivere un libro.
Schnabel ha creato, come se avesse dipinto un quadro, un capolavoro, ricorrendo ad una tecnica mista di flash back, di viaggi della mente e dell'occhio della camera che è veramente l'occhio da cui vede ( male ) il protagonista.
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Jean Dominique Bauby (Mathieu Amalric) è colpito dalla locked in syndrome che dopo un ictus lo costringerà per il resto dei suoi giorni a vivere immobile,su un letto di un ospedale della provincia francese. Bauby riesce in condizioni disastrose ad oltrepassare la mutezza del suo corpo ( lo scafandro appunto ) con l'unica parte del corpo che reagisce al suo cervello, l'occhio; con un battito di ciglia ( la farfalla dell'immaginazione che nasce e spazia in un mondo a se stante)riuscirà, grazie alle sue splendide donne, a scrivere un libro.
Schnabel ha creato, come se avesse dipinto un quadro, un capolavoro, ricorrendo ad una tecnica mista di flash back, di viaggi della mente e dell'occhio della camera che è veramente l'occhio da cui vede ( male ) il protagonista. E' un film sulla forza della mente, sull'amore, soprattuto quello delle donne. E' un film che ricorda sicuramente MARE DENTRO per il suo coraggio, perche' racconta senza mai essere patetico il dramma di una vita che cambia , ma dalla quale si puo' riuscire comunque vincitori. Le donne ,proprio come in un altro film spagnolo, TUTTO SU MIA MADRE,sono il motore intorno al quale Bauby riesce ad ingranare la marcia e partire verso un viaggio di parole non dette, di frasi non espresse, ma di un cervello perfettamente funzionante che riesce ad esprimere quanto di meglio possa fare la mente umana: sorridere con drammaticità alle disgrazie della vita.
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gianfri
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venerdì 9 maggio 2008
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la sofferenza attraverso gli occhi di chi muore
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Lo scafandro e la farfalla
Una storia forte raccontata in questo film; un uomo di successo viene colpito da un ictus e rimane completamente paralizzato anche se il cervello funziona come prima e solo il movimento della palpebra dell’occhio sinistro permette di comunicare con il mondo esterno. Il significato si condensa nella frattura tra ciò che era prima e ciò che non è più. La verità che si svela dopo, del tipo la mancanza dopo la morte di qualcuno a cui non si era riusciti a manifestare tutto l’amore. Tutto si ferma per l’uomo paralizzato e allora intorno a lui cominciano a girare degli affetti, quello “nuovo” del le terapeute che devono insegnargli a comunicare e si dedicano a lui con assoluta dedizione, quello della ex moglie, dei suoi bambini, dell’amante del vecchio papà novantenne.
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Lo scafandro e la farfalla
Una storia forte raccontata in questo film; un uomo di successo viene colpito da un ictus e rimane completamente paralizzato anche se il cervello funziona come prima e solo il movimento della palpebra dell’occhio sinistro permette di comunicare con il mondo esterno. Il significato si condensa nella frattura tra ciò che era prima e ciò che non è più. La verità che si svela dopo, del tipo la mancanza dopo la morte di qualcuno a cui non si era riusciti a manifestare tutto l’amore. Tutto si ferma per l’uomo paralizzato e allora intorno a lui cominciano a girare degli affetti, quello “nuovo” del le terapeute che devono insegnargli a comunicare e si dedicano a lui con assoluta dedizione, quello della ex moglie, dei suoi bambini, dell’amante del vecchio papà novantenne. Il significato ora, con quel solo movimento di palpebra, è quello che lui dà, nel raccontarsi, alle cose che gli accadono e noi diventiamo “un poco” lui, percepiamo il flusso dei sentimenti quasi a dirgli: “ si ti capiamo sei vivo” il tuo sforzo non è vano se riesci a dire quello che provi. Ci avvicina a quello che chiamiamo sentimenti a quello che è il non detto nelle relazioni. Un messaggio difficile da rendere cienematograficamente e che il regista a reso esemplarmente nel suo raccontare in prima persona quello che accade, perfetta a questo proposito la scena iniziale quando con la vista annebbiata del paziente noi spettatori “vediamo” l’immagine sfocata del medico che ci spiega la sua/nostra diagnosi.
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great steven
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martedì 10 maggio 2016
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troppo sopravvalutato: è la noia a prevalere.
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LO SCAFANDRO E LA FARFALLA (FR/USA, 2007) diretto da JULIAN SCHNABEL. Interpretato da MATHIEU AMALRIC, PATRICK CHESNAIS, EMMANUELLE SEIGNER, MARIE-JOSéE CROZE, ANNE CONSIGNY, NIELS ARESTRUP, MAX VON SYDOW, EMMA DE CAUNES
Jean-Dominique Bauby è uno stimato giornalista e padre di famiglia che lavora per la rivista Elle. Un giorno, mentre percorre in automobile una strada di campagna con uno dei figli, accusa un malore. Si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale, e scopre una sconvolgente verità: un ictus gli ha paralizzato completamente il corpo e ha scollegato il suo cervello dal sistema nervoso centrale.
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LO SCAFANDRO E LA FARFALLA (FR/USA, 2007) diretto da JULIAN SCHNABEL. Interpretato da MATHIEU AMALRIC, PATRICK CHESNAIS, EMMANUELLE SEIGNER, MARIE-JOSéE CROZE, ANNE CONSIGNY, NIELS ARESTRUP, MAX VON SYDOW, EMMA DE CAUNES
Jean-Dominique Bauby è uno stimato giornalista e padre di famiglia che lavora per la rivista Elle. Un giorno, mentre percorre in automobile una strada di campagna con uno dei figli, accusa un malore. Si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale, e scopre una sconvolgente verità: un ictus gli ha paralizzato completamente il corpo e ha scollegato il suo cervello dal sistema nervoso centrale. Benché Jean-Do (come lo chiamano affettuosamente amici e conoscenti) riesca ad udire una sorta di voce interiore nella sua mente, capisce ben presto che non è più in grado di esprimersi verbalmente e farsi dunque comprendere a parole dai suoi interlocutori. L’ictus gli ha anche annullato la funzionalità dell’occhio destro, quindi non gli resta che quello sinistro per poter, con estrema lentezza, riagguantare un contatto col mondo. Dinanzi a domande precise, ivi comprese la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate tramite un’apposita sequenza, può sbattere la palpebra funzionante per le risposte affermative e sbatterla due volte per quelle negative. Attraverso questo sistema comunicativo stentato, ma che dà comunque i suoi frutti, l’ex giornalista scrive la sua autobiografia, nella quale racconta tutti gli eventi che hanno preceduto la malattia. Bauby morirà dieci giorni dopo la pubblicazione del libro. La memoria e l’immaginazione del protagonista rivivono nelle rievocazioni che egli compie nei momenti di maggiore scoramento, scoramento che lo attanaglia quando crede di non poter proseguire, ma che viene puntualmente superato con una forza d’animo fomentata da un non comune coraggio. Fra le sue fervide e abbondanti rimembranze, trovano posto gli eventi più allegri del suo passato, le cose che avrebbe voluto fare, le persone che trascurò e a cui avrebbe desiderato dedicare una fetta più ampia di tempo, fino al rapporto conflittuale col padre sfociato in un brusco litigio. Una pioggia di riconoscimenti ha premiato questo adattamento cinematografico dell’omonima autobiografia di Bauby, uscita nel 1997, fra i quali i più importanti son sicuramente il Golden Globe per il miglior film straniero e il premio per la migliore regia al Festival di Cannes. A mio giudizio, sono eccessivi. Il film ha un andamento ondivago che spesso travalica nel noioso, addirittura con qualche involontaria ma consistente scivolata nell’autocommiserazione, e il tutto non produce un messaggio di speranza come probabilmente si aspettava il regista Schnabel. Al contrario, si ha l’idea di aver a che fare con un prodotto che mescola una noia schopenhaueriana ad un idealismo di matrice hegeliana, senza però il risultato di una filosofia esistenziale che ne esca fuori e insegni qualcosa di significativo ad uno spettatore assetato di verità e conoscenza. Certi passaggi appaiono ridicoli e imbarazzanti, benché l’interpretazione accorata e saggia di Amalric riesca almeno in parte a risollevare l’opera dagli screzi che avvengono inavvertitamente fra la sua componente ricostruttiva, l’origine letteraria e il bisogno di comunicare una morale importante al pubblico. Morale che però si trasforma in moralismo, o peggio, in una caricatura di un uomo veramente vissuto che ha perso tutto quanto era fondamentale per lui (la sua salute, la sua autonomia) e adesso è vittima delle sue limitazioni. Per quanto tuttavia Jean-Do riesca, seppur con una fatica tanto accentuata quanto ammirevole, ad aggrapparsi ad un disperatissimo spiraglio per rimanere collegato con la realtà e le altre persone, la sua lotta sembra già persa in partenza, almeno per come il film di Schnabel la raffigura: si ha insomma l’impressione che i personaggi che interagiscono con lui desiderino inconsapevolmente da parte sua un affaticamento che non può dare, oppure, cosa che non cambia il discorso di fondo, un ottimismo sfegatato che non servirà a nulla in quanto il suo destino è già clinicamente segnato. Clinicamente ma anche psicologicamente. La ricchezza del film, tutto sommato grossolano e deludente, sta però nei contributi tecnici: al montaggio meraviglioso di Juliette Wefling, si abbina la splendida fotografia di Janusz Kaminski. Entrambi ricevettero una candidatura all’Oscar. L’accompagnamento delle sequenze più agresti e intimiste col celeberrimo brano francese La mer è una delle poche scelte azzeccate che questo dramma cinematografico di serie B è riuscito a portare in campo, ma galleggia su un mare di remissività e poca audacia di osare. La prova di M. Amalric rimane ciononostante un motivo valido per guardarlo, ma anche von Sydow brilla nel dare corpo e voce al suo spigoloso genitore. La malattia di cui il protagonista ha sofferto, e che l’ha condotto ad una lenta morte per deperimento inesorabile, è la cosiddetta sindrome locked-in.
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davidestanzione
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martedì 7 settembre 2010
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schnabel,pittoricopioniere svelatore di soggettive
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JeanDo(minique) Baby, giornalista, padre di due figli, piomba in quella che (convenzionalmente) è ritenuta la buia cecità (dimezzata, per sua fortuna) del coma, la “non vita vissuta”, la paralisi motoria avviluppante (ma cosciente) che la medicina definisce “sindrome locked-in”. Persa la funzionalità del corpo e dell’occhio destro, a Jean Do rimane a disposizione esclusivamente la palpebra sinistra, mobile leva salvifica che assurge a (suo) ultimo, estremo, vincolo comunicativo col mondo esterno, alieno e “altro” dalla sua corporalità straziata, un mondo sbadatamente sbiadito che ‘va’, a suo modo pulsante, a suo dire perfetto, comunque imperterrito nel suo caotico andirivieni.
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JeanDo(minique) Baby, giornalista, padre di due figli, piomba in quella che (convenzionalmente) è ritenuta la buia cecità (dimezzata, per sua fortuna) del coma, la “non vita vissuta”, la paralisi motoria avviluppante (ma cosciente) che la medicina definisce “sindrome locked-in”. Persa la funzionalità del corpo e dell’occhio destro, a Jean Do rimane a disposizione esclusivamente la palpebra sinistra, mobile leva salvifica che assurge a (suo) ultimo, estremo, vincolo comunicativo col mondo esterno, alieno e “altro” dalla sua corporalità straziata, un mondo sbadatamente sbiadito che ‘va’, a suo modo pulsante, a suo dire perfetto, comunque imperterrito nel suo caotico andirivieni.
Proprio grazie allo sbattere reiterato della propria palpebra che JeanDo riuscirà a dettare il “suo” romanzo, suo a rimarcare la vivida “identità pensante” del protagonista, che la (terribile) malattia non è stata in grado di scalfire: vano, eppur tremendamente d-o-l-o-r-o-s-o, è infatti da un lato il “morboso”, spietato prostrarne lo scafandro, l’involucro, la “prigione carnale”; mentre però contemporanea persiste, dall’altro, la volteggiante farfalla che (tenta di) dispiega(re) le sue fragili ali intrise di acuminato, sofferto (e proprio per questo) ancor più acuito lavorio mentale, straripante (?. Ebbene sì) MA imbrigliato nella sua stessa, farraginosa, maledetta, (non???) “esprimibilità”. La farfalla di Jean Dominique é l’ultima fiamma tangibile, al di là del suo corpo ormai inservibile, che continua a camminare con lui anche dopo l’incidente e (perfino) a suscitargli pulsioni metapornografiche (la prospettiva è- profanamente -la stessa de “Il mio piede sinistro Uncut” con Franco Trentalance, mentre con l’omonimo film di Sheridan l’opera di Schnabel ha in comune l’appiglio ad un elemento del corpo non manuale ma che si fa strumento artistico altrettanto efficace).
La farfalla, baluardo estremo che sgomita per dispiegare le proprie ali al di là e al di fuori della propria prigione, dei filamenti opprimenti di quel bruco che asfissiante lo imprigiona.
Al suo terzo film, Julian Schnabel, più che un regista un “pittorico pioniere” svelatore di nuovi orizzonti immaginifici e sonori, propone la struggente, antiestetica soggettiva di un malato immobilizzato. E lo fa con le tonalità poetiche di una surreale ‘esperienza visiva’, ficcante, illuminata, scopertamente sinuosa e meravigliosamete arrogante: Schnabel con sovversiva visionarietà compie infatti un radicale “atto di forza” nei confronti degli spettatori, li priva della loro consueta maniera di percepire visivamente dall’esterno (il cinema) e la malattia terminale (uno sguardo che di norma é sì accoratamente pietoso, ma anche distaccato), fornendo loro un nuovo filtro visivo e facendo combaciare (genialmente) la claustrofobicamente opprimente prospettiva del malato con quella dello ovattata della poltrona dello spettatore, il quale dunque non solo “vede” ma soprattutto “SI vede” giocoforza costretto all’immedesimazione alienante da sé, (inevitabilmente) in grado di elevarlo da semplice guardone a potenziale (fictionale) protagonista. Già, fictionale. Perché quel velo di autarchico realismo in soggettiva Schnabel di tanto in tanto lo solleva:non mancano infatti le evasive digressioni e le fuoriuscite da tale visione prospetticamente anticonvenzionale, come i frammenti balneari in cui JeanDo va al mare con la sua famiglia o le accorate, poeticamente diluite (e rincarate del miglior pathos celluloidale) corse contro il tempo per salvarne la vita pericolosamente instabile. Funzionali evasioni, dopotutto. Giustappunto per svelare (anche) la camaleontica, autodegradante ma dignitosa (specialmente nel tenero, lacrimoso dettaglio del labbro) mimesi fisica di uno straordinario Mathieu Amalric, attore (e regista francese) allora ancor meno conosciuto di oggi, prima del villain di Quantum of Solace e del premio per la miglior regia a Cannes, e che dunque ben supporta (più di quanto avrebbe potuto un divo come Johnny Depp, intimo amico di Schnabel) l’immedesimazione da parte degli spettatori. Uno sguardo, quello in soggetiva, che a conti fatti persiste però autarchico per i tre quarti del film, capace di elevare il valore filosofico risiedente nell’atto stesso dello “spectare” (che nel teatro classico rimanda più all’”interagire” col palcoscenico e alla conpartecipazione che al semplice “guardare”) e al contempo di demolire un bel po’ di convenzionali ortodossie cinematografiche. E le franose cascate dei titoli di coda (che fanno, non a caso, un percorso “inverso”, antigravitazionale) sono infine l’estrema allegoria di uno sguardo inedito, “radical-sovversivo”, che ricade e piomba struggente su chi accetta di esserne (com)partecipe.
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intra
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giovedì 5 gennaio 2012
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liberta interiore
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Jean-Do, redattore capo della prestigiosa rivista Elle, colpito da un ictus a soli 42 anni, rimane paralizzato dalla testa ai piedi, e incapace di comunicare con il mondo esterno, pur conservando una mente lucida. Solo la palpebra del suo occhio sinistro riesce ancora a muoversi. Da questo battito di ciglia riparte la rinascita del protagonista che, a poco a poco , si lascia alle spalle la disperazione e l'autocommiserazione, scoprendo che se pur prigioniero di un corpo immobile, e' ancora libero di ricordare e di immaginare; a tal punto che, grazie al suo occhio sinistro, riesce a dettare lettera per lettera, parola per parola, la sua autobiografia. Un film coinvolgente,sconvolgente, ma soprattutto poetico e originale per come e' stato trattato il tema della malattia, non assomiglia a nessuno dei film "ospedalieri" fatti fino ad oggi.
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Jean-Do, redattore capo della prestigiosa rivista Elle, colpito da un ictus a soli 42 anni, rimane paralizzato dalla testa ai piedi, e incapace di comunicare con il mondo esterno, pur conservando una mente lucida. Solo la palpebra del suo occhio sinistro riesce ancora a muoversi. Da questo battito di ciglia riparte la rinascita del protagonista che, a poco a poco , si lascia alle spalle la disperazione e l'autocommiserazione, scoprendo che se pur prigioniero di un corpo immobile, e' ancora libero di ricordare e di immaginare; a tal punto che, grazie al suo occhio sinistro, riesce a dettare lettera per lettera, parola per parola, la sua autobiografia. Un film coinvolgente,sconvolgente, ma soprattutto poetico e originale per come e' stato trattato il tema della malattia, non assomiglia a nessuno dei film "ospedalieri" fatti fino ad oggi. Inoltre interessante il progressivo delinearsi di una nuova vita, non solo possibile, ma piu' profonda e ricca di significati rispetto a quella che Jean-Do aveva vissuto precedentemente. Un incredibile inno alla vita, vista e vissuta attraverso quell'occhio capace di esprimere tutta la profonda essenza di un uomo cosi' umiliato e imprigionato, ma libero come una farfalla...
Anita Intra
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gabriellaprezioso
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mercoledì 21 marzo 2012
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scafandri e farfalle
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Mi sono trovata catturata dai pensieri di Jean-Do, nel buio della mia stanza ascoltavo ciò che gli altri non udivano, ho guardato il mondo anche io come lo vedeva lui, come nei sogni, quando parli e nessuno ti sente. L'immaginazione e la memoria sono davvero poche delle cose che salvano in qualunque caso, quello che desidereremmo fare e non abbiamo fatto e soprattutto potremmo non fare mai perchè va al di là delle nostre reali possibilità contingenti, e quello che ab fatto, quello che da sapore a giorni diversi, una nota di colore nei momenti bui, la testimonianza di esserci.
Non ho piu dormito tutta la notte, ho guardato la mia camera come non l'avevo mai vista, ho cambiato il posto dove dormo solitamente per vedere se a destra si scorgesse qualcosa di diverso, ed era diverso, anche solo per il fatto che la luce dell'abat-jour allungava ombre diverse.
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Mi sono trovata catturata dai pensieri di Jean-Do, nel buio della mia stanza ascoltavo ciò che gli altri non udivano, ho guardato il mondo anche io come lo vedeva lui, come nei sogni, quando parli e nessuno ti sente. L'immaginazione e la memoria sono davvero poche delle cose che salvano in qualunque caso, quello che desidereremmo fare e non abbiamo fatto e soprattutto potremmo non fare mai perchè va al di là delle nostre reali possibilità contingenti, e quello che ab fatto, quello che da sapore a giorni diversi, una nota di colore nei momenti bui, la testimonianza di esserci.
Non ho piu dormito tutta la notte, ho guardato la mia camera come non l'avevo mai vista, ho cambiato il posto dove dormo solitamente per vedere se a destra si scorgesse qualcosa di diverso, ed era diverso, anche solo per il fatto che la luce dell'abat-jour allungava ombre diverse. Tutti un po' imprigionati in uno scafandro abbiamo ali di farfalla, forse per volare potrei provare a chiudere un occhio..
Grazie
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mattbirra
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lunedì 12 maggio 2008
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resistere all'impensabile
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Conservare quello che di umano resta in noi. Attaccarcivisi con ogni nostra residua forza.Quello che di umano resta in noi.
L'eco nella mente di Jean-Do si prolunga in una domanda, "Cos'è che di umano resta ancora in me?", e la domanda resta sospesa nel vuoto, nell'impossibilità di attingere ad altro che alla vista e all'udito, alla memoria e all'immaginazione, ai minimi termini e ai minimi sensi, perchè si ha un corpo paralizzato e non si può fare altro che "prolungare" la vita, così come si prolunga l'eco di una domanda.
Eppure è una storia vera. E proprio per questo, ancora più impensabile.
Ancora più improponibile l'identificazione per lo spettatore.
Sembra il sogno di un letterato bigotto e intorpidito che sogna, si proprio questo è il suo sogno: essere curato, coccolato e nutrito, avere chi legge i libri per te, e tu li fermo ad ascoltare, a fare solo lo sforzo di immaginare, come se immaginare non richiedesse alcun sforzo e non fosse il nostro corpo, la sua forza e la sua vigoria, la sua vita e la sua tensione, il suo dolore e la sua frustrazione a far nascere in noi il fiore irripetibile dell'immaginazione, la forza avvolgente del pensiero, l'apertura imperiosa della vita.
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Conservare quello che di umano resta in noi. Attaccarcivisi con ogni nostra residua forza.Quello che di umano resta in noi.
L'eco nella mente di Jean-Do si prolunga in una domanda, "Cos'è che di umano resta ancora in me?", e la domanda resta sospesa nel vuoto, nell'impossibilità di attingere ad altro che alla vista e all'udito, alla memoria e all'immaginazione, ai minimi termini e ai minimi sensi, perchè si ha un corpo paralizzato e non si può fare altro che "prolungare" la vita, così come si prolunga l'eco di una domanda.
Eppure è una storia vera. E proprio per questo, ancora più impensabile.
Ancora più improponibile l'identificazione per lo spettatore.
Sembra il sogno di un letterato bigotto e intorpidito che sogna, si proprio questo è il suo sogno: essere curato, coccolato e nutrito, avere chi legge i libri per te, e tu li fermo ad ascoltare, a fare solo lo sforzo di immaginare, come se immaginare non richiedesse alcun sforzo e non fosse il nostro corpo, la sua forza e la sua vigoria, la sua vita e la sua tensione, il suo dolore e la sua frustrazione a far nascere in noi il fiore irripetibile dell'immaginazione, la forza avvolgente del pensiero, l'apertura imperiosa della vita.
E il pensiero corre subito al grande film di Amenàbar, al Mare dentro, all'incredulita in cui si incorre anche nei confronti del suo grande protagonista, ci sono addirittura due donne che si innamorano di lui, di uno storpio con una faccia serenissima, di un'ex palestrato e playboy che anche a metà, letteralmente a metà, non ha perso lo smalto, non ha finito di ammaliare.
In questo caso allo sfortunatissimo protagonista/paralitico manca la risorsa finanche dell'espressione facciale, manca l'occhio languido di Ramon, che l'occhio riflesso sui vetri dell'ospedale, l'occhio che ci appare quando una scintilla viene a risvegliare Jean-Do e a dargli la forza, di nonostante tutto, continuare è un'occhio sbarrato e mobilissimo, un faro venato da tutte le emozioni, i sentimenti e i desideri di cui è capace un cervello in trappola.
un'immagine di quelle che restano nella storia del cinema, come e più dell'occhio tagliato di Bunuel.
E pur apprezzandro l'estrema lucidità con cui il protagonista sa compiangersi una domanda resta sospesa fra le pieghe di questo bellissimo, magistrale film.
Cosa c'è di ancora umano in una vita del genere?
La fine, l'esito breve, spietato e implacabile di questo, perfetto anche tecnicamente, film, viene a risponderci trascinandoci nelle immagini delle catastrofi naturali dove l'occhio, unico e ciclopico del piccolo uomo si tuffa per perdersi e non più tornare una volta che è finito il suo compito, una volta che un poderoso slancio di memoria e immaginazione, di visioni e di concertazioni ci ha donato quella che, ancora e nonostante tutto, resta l'esperienza straordinaria di un uomo a cui una donna,la madre dei suoi figli ha potuto dire "sei l'uomo più sorprendente che conosca" (o qualcosa del genere).
Dopo, dopo la fatica e lo svisceramento, dopo un viaggio fantastico nell'abisso della solitudine di un cervello che non può più sopportare un corpo paralizzato, la sapienza di questo corpo, l'onestà di questo cervello lo riportano al nulla da cui proveniamo, al nulla, che come sapeva bene Jean-Do,da cui nessuna Lourdes ci può salvare, nessuna compassione ci può privare, nessun dolore all'infinito si può protrarre.
Ma che l'immaginazione e la grande letteratura, il grande cinema, la grande arte possono immortalare.
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lore64
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venerdì 6 aprile 2018
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immonda schifezza
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Perfetto esemplare di arte degenerata, che in una società degna di questo nome andrebbe compensato col rogo della pellicola e il manicomio pel regista. Invece di raccontare una storia il film, perfettamente in linea colla tendenza dell'epoca, ci propina un'ammuina di sporiferi quadretti di vita quotidiana senza il minimo tentativo di approfondire la natura della malattia, la possibilità di un percorso riabilitativo, ma anche, più semplicemente, la personalità del malato e i suoi sentimenti dinanzi alla tragedia che va vivendo. Una e dico una volta il protagonista dice di voler morire dopodiché pare aver superato subitamente e per incanto ogni dubbio e ogni tormento, e il film diventa tutto (e soltanto) uno sfarfallamento (come dice il titolo) - di una noia e di una prolissità allucinanti - di pensieri e situazioni in libertà prive di qualsiasi nesso logico appena sostenuto.
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Perfetto esemplare di arte degenerata, che in una società degna di questo nome andrebbe compensato col rogo della pellicola e il manicomio pel regista. Invece di raccontare una storia il film, perfettamente in linea colla tendenza dell'epoca, ci propina un'ammuina di sporiferi quadretti di vita quotidiana senza il minimo tentativo di approfondire la natura della malattia, la possibilità di un percorso riabilitativo, ma anche, più semplicemente, la personalità del malato e i suoi sentimenti dinanzi alla tragedia che va vivendo. Una e dico una volta il protagonista dice di voler morire dopodiché pare aver superato subitamente e per incanto ogni dubbio e ogni tormento, e il film diventa tutto (e soltanto) uno sfarfallamento (come dice il titolo) - di una noia e di una prolissità allucinanti - di pensieri e situazioni in libertà prive di qualsiasi nesso logico appena sostenuto.
Per la verità un tema forte dal film emerge e come. L'arte degenerata non racconta, non interessa e non ci presenta nulla di bello, ma qualcosa lo sa far bene, e cioè ungere il posteriore ai pregiudizi che scuola e media di regime quotidianamente inculcano nei poveri cervelli del gregge: mi riferisco alla ripugnante religione umanista e alla grottesca attribuzione di valore intrinseco alla vita umana, procedenti in linea diretta dalla superstizione giudaica. Anziché guardare pieno di spregio al vile attaccamento del protagonista ai miserabili brandelli di vita lasciatigli dal destino, e costruire il film su una virile esaltazione del suicidio e della morte cercata in coscienza e dignità di spirito, il regista lo trasforma in una melensa quanto servile apologia del vago spiritualismo cristianeggiante assurto a nucleo metafisico di questa società in pieno e meritato corso di decadenza. Con sette miliardi di capi presenti sul pianeta la vita umana è la merce a più basso costo presente nell'universo.
"Lo scafandro e la farfalla" è uno spregevole connubio di arte à la page e di mitologemi di regime, da buttare nel cestino alla prim(issim)a occasione.
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