Rivette e Depardieu jr. Una strana coppia
di Laura Putti La Repubblica
Un uomo in divisa militare percorre una chiesa a passi lunghi e sonori e arriva davanti a una grata di ferro. Dietro, qualcuno sparisce in fretta. Il fruscio degli abiti è come una scudisciata. Lo spettatore capisce che quel breve incontro tra l'ufficiale e la suora è una deflagrazione. Ma è l'inizio del film e ne ignora il motivo. Vede un'isola, Maiorca, e sull'isola un convento di clausura. Vede, all'improvviso e di sfuggita, l'abito scuro di lei e, di lui, (eleganza dell'uniforme, la bellezza dei tratti, la concitata avidità di sapere. Fino alla disperata sorpresa per quel ritrovamento. Armand de Montriveau, ex generale dell'esercito napoleonico ed eroe di battaglie, è arrivato sull'isola durante la spedizione francese per ristabilire l'autorità di Ferdinando VII di Borbone, già re dì Spagna, dopo la reggenza di Giuseppe Bonaparte. Suor Teresa ci è arrivata cinque anni prima per sottrarsi a una passione diventata un gioco al massacro.
Prima di rinchiudersi nel buio della clausura, si era molta esposta alle luci della mondanità parigina. Allora si chiamava Antoinette de Navarreins, infelicemente sposata al duca di Langeais. Poi, in un salotto di Saint-Germain, aveva conosciuto il generale de Montriveau. Così, nel suo nuovo film, Jacques Rivette si rivolge ancora una volta, la terza, all'opera di Balzac. E, a trentasei anni da Out one (la cui versione lunga durava più di dodici ore) e a sedici da La bella scontrosa, si rituffa nella Commedia umana attraverso La duchessa di Langeais, da oggi nei nostri cinema. Nato dall'ampliamento di un racconto d'appendice, il romanzo fa parte della Storia dei Tredici, trilogia (con Ferragus e La ragazza dagli occhi d'oro) scritta nel 1835 e catalogata nella Vie parisienne dell'immensa opera di Balzac. Oltre a quello tra la duchessa e il generale, nel film è deflagrante l'incontro tra due magnifici attori di razza: nella parte della duchessa c'è Jeanne Balibar, già strepitosa in un altro Rivette (Chi lo sa?, 2001, accanto a Sergio Castellitto), mentre il generale è Guillaume-Depardieu, personaggio eccessivo e selvaggio, i cui ardori si infrangono contro la distante e capricciosa civetteria di lei.
Il titolo originale del film (uscito in Francia in marzo e presentato in concorso all'ultima Berlinale) è Ne touchez pas la hache, non toccate l'ascia, che vuol dire più o meno «non scherzate con il fuoco». L'ascia ha due lame e quelle della bella duchessa sono entrambe molto affilate. Con una attira a sé il generale, con l'altra lo respinge. Ma sempre e comunque cerca di ferirlo, in un salotto diventato campo di battaglia. «Nessuno sa quello che Antoinette pensi in cuor suo» dice Rivette. «Forse non lo sa neanche lei».
Settantanove anni, uno dei quattro cavalieri della Nouvelle Vague (con Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e Eric Rohmer), Jacques Rivette racconta di essere stato gentilmente spinto verso l'opera di Balzac proprio da Rohmer alla fine degli anni Cinquanta.
La Commedia umana non era, in gioventù, nelle sue corde. Poi la passione lo ha travato, tanto da fargli ridurre un romanzo a due ore e un quarto di film utilizzando spesso, nella sceneggiatura, le esatte parole dì Balzac. Per questo La duchessa di Langeais è volutamente teatrale, un po' di maniera e «con lunghe frasi interrotte da avvenimenti inattesi, con sorprendenti cambiamenti di velocità e cose importanti dette quasi en passant» dice il regista.
Il film ha una storia singolare (per certi versi rassicurante per i registi italiani in lotta: anche in Francia il cinema d'autore ha un campo d'azione limitato). Dopo la Storia di Marie e Julien con Emmanuelle Béart, a Rivette era tornata la voglia di lavorare con Jeanne Balibar. L'attrice chiese di poter dividere lo schermo con Guillaume Depardieu. Dopo molte vicissitudini umane, dopo la prigione, l'alcolismo, P eroina, dopo l'amputazione di una gamba, quattro anni fa, e una biografia scandalosa e disperata (Tout donner, dare tutto, uscita nel 2004), a trentasei anni, il giovane Depardieu meritava una nuova occasione.
All'inizio Rivette è dubbioso: la fama dell'attore è tutt'altro che rassicurante. Ma il film che il regista avrebbe voluto fare - c'era già il titolo: Paris l'année prochaine aveva proprio bisogno di una donna e di un uomo. «Quel film li non lo volle produrre nessuno» ricorda Rivette, «ma nel frattempo avevo capito quale meraviglia sarebbero stati i due attori insieme sullo schermo. Dovevo trovare in fretta un altro soggetto». Arrivò l'idea di Balzac e della sua duchessa («Un film fatto con pochissimi mezzi: immaginate di dover girare Il Gattopardo con tre franchi e mezzo» dice Rivette), grazie alla quale Guillaume Depardieu ha smesso di essere solamente un problematico figlio d'arte ed è diventato un attore vero. La critica francese gli ha tributato un trionfo. Nel ruolo di Montriveau lui ha messo la sua umanità e la disperata, reale, abitudine ad adeguarsi ai giochi degli altri (molto complicato e molto pubblicizzato il rapporto con suo padre).
Quando Guillaume Depardieu arriva In scena, la riempie per Intero: tanto à esile e distante lei, tanto lui è enorme e appassionato. Ma con il suo claudicare, evidentissimo nella prima sequenza (la corsa verso la clausura), l'attore non ha ancora fatto pace: «Quella scena mi disturba» dice «anche se so che fa quell'effetto soltanto a me. Allora, per coprire la mia presenza, cerco di vedere qualcos'altro: vedo l'amore in un luogo di culto, un'audacia in un simbolo. La vera umiltà del film è in questo tatto e, allo stesso tempo, in questa violenza».
Da Il Venerdì di Repubblica, 13 Luglio 2007
di Laura Putti, 13 Luglio 2007