Io non sono qui

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Un film di Todd Haynes. Con Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger.
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Titolo originale I'm Not There. Musicale, durata 135 min. - USA 2007. - Bim Distribuzione uscita venerdì 7 settembre 2007. MYMONETRO Io non sono qui * * * 1/2 - valutazione media: 3,64 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Quadri e versioni d'un talento inimitabile. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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martedì 12 marzo 2019

 IO NON SONO QUI (USA/GERM, 2007) diretto da TODD HAYNES. Interpretato da CHRISTIAN BALE, CATE BLANCHETT, RICHARD GERE, HEATH LEDGER, CHARLOTTE GAINSBOURG, JULIANNE MOORE, MARCUS CARL FRANKLIN, BEN WHISHAW, BRUCE GREENWOOD, BOB DYLAN
Nella decisione del regista di scomporre Bob Dylan (vero nome: Robert Allen Zimmermann, 24 maggio 1941) – uno dei più eccelsi talenti musicali del secondo ‘900 – in sette alter ego interpretati da sei attori, ognuno rappresentante un lato specifico della sua musica e della sua personalità, respingendo i canoni del cinema biografico, l’etica e l’estetica risultano inseparabili. In altalena fra vita e carriera musicale, l’epoca ondeggia tra gli anni 1950 e i primi 1970: 1.) Woody, undicenne chitarrista di carnagione scura, nomade, che ha come mito Woodie Guthrie e, per assistere al capezzale del suo omonimo moribondo, scappa da un riformatorio; 2.) Jack Rollins, folk-singer celebre per le sue canzoni di protesta all’inizio degli anni 1960, dirette in particolar modo a screditare la guerra in Vietnam; 3.) John Rollins, illuminato cantante predicatore che si converte al cristianesimo; 4.) Jude Quinn, rockstar androgina, cinica e stizzosa dalle abitudini mondane che non ama troppo le interviste e i giornalisti; 5.) Robbie, popolare attore cinematografico, motociclista ed esperto dongiovanni che intrattiene una relazione con una famosa pittrice francese; 6.) Arthur, poeta sotto processo col vizio di citare Rimbaud; 7.) Billy the Kid, nostalgico cowboy di mezza età che in passato si inimicò Pat Garrett, spietato critico musicale. Sette personaggi in cerca di cantautore che analizzano la leggenda vivente di Duluth mettendone in risalto le caratteristiche molteplici che ne costituiscono le plurime sfaccettature: poeta, profeta, contestatore, cantastorie, messaggero, rivoluzionario e menestrello. Quella che colpisce maggiormente è la figura della stupefacente Blanchett che si guadagnò la Coppa Volpi a Venezia 2007, ma non meno significative appaiono le interpretazioni di Ledger nei panni dell’attore e di Gere come cowboy occhialuto in sella ad un fedele destriero (l’ispirazione al dualismo fra lo sceriffo indefesso e l’imprendibile criminale rimanda al film del 1973 che vide Dylan in persona vestire il ruolo di Alias, l’ambiguo, proteiforme amico di Billy). Resta il sospetto di un esercizio di stile per la sua struttura affastellata nel gioco delle rifrazioni: spiegandomi meglio, come è anche avvenuto nella realtà, alla fin fine è impervio per chi non conosce Dylan ed estraneo per chi invece possiede molte nozioni in merito al punto da dichiararsene esperto. L’anticonformismo, la follia e il genio indiscutibile del protagonista silente che non compare mai se non nelle esibizioni dal vivo preventivamente soffuse a livello cromatico, sono parti integranti di un ritratto che si costruisce da sé in un viaggio nel tempo di cui i sette personaggi intrecciano le loro storie di protesta, disagio, solitudine ed esistenza errabonda per comporre la rievocazione ultima desiderata da Haynes, o, più specificamente, dalla sua sceneggiatura, firmata insieme a Oner Moverman. Un’ottima ambientazione, riecheggiante un ventennio abbondante di storia americana, è utile a Haynes per sperimentare una narrazione frammentata e psichedelica, adoperando sei diversi stili di regia all’interno di ciascun microcosmo nel quale il carattere agisce sia da primo attore sia da spettatore delle proprie angosce oniriche. Un documentario davvero impressionante per caratura e qualità che va ben al di là della sua stretta definizione e in più costituisce non solo un semplice omaggio al Bob Dylan che la maggioranza del suo pubblico conosce e adora (lo stesso cantautore ha dichiarato, almeno sembra, che questo è l’unico ritratto che abbia apprezzato sul serio), ma una miscela magnificamente congegnata di arte visiva, musica e cinema. Quale attributo più gli si addice, fra quelli nominati sopra? Difficile stabilirlo. Difficile per via di una versatilità che gli ha permesso di spaziare nei più svariati ambiti ottenendo pressoché ovunque risultati da applauso, perfino un recente premio Nobel (molto discusso) che però non realizza la premiazione più adeguata per un artista di questo tipo perché, sebbene la canzone statunitense sia stata, grazie a lui, notevolmente rinnovata e accresciuta, un riconoscimento così spetterebbe di più ad un innovatore che abbia tuttavia effettuato il suo lavoro di rinvigorimento nel campo della letteratura, narrativa o saggistica che dir si voglia. Tornando alla pellicola, cui la giuria di Venezia conferì anche un Leone d’Argento, essa ha inoltre il considerevole pregio di scegliere i brani musicali migliori che si adattino alle sequenze e ai loro movimenti precipui mentre mostrano o la voglia di navigare controcorrente o la spinta verso una comunicazione unanime, universale ed eterogenea. In tal senso, abbiamo canzoni di straordinaria bellezza quali Like a Rolling Stone, I Want You e Ballad of a Thin Man che, nel senso veridico del vocabolo, misurano la forza delle immagini contemplando contemporaneamente lo sguardo su una poesia descrittiva di innegabile efficacia.

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