Bush è una stonatura, ma un «rumore bianco» cresce e la coprirà... È il rumore della protesta che sale in Usa contro la politica, ma anche contro i riti di una società alienata.
di Federica Lamberti Zanardi Il Venerdì di Repubblica
Ne è convinto l'attore, che, nel quarto film da regista, «Into the Wild», racconta la storia vera di un giovane che volta le spalle alla civiltà e cerca se stesso in Alaska. Un po', spiega, com'è successo a me con il surf...
Sean Penn si sente un uomo contro. Uno spirito libero.
Un combattente che non fa parte del coro. Lo si capisce anche dal modo in cui si presenta all'in tervista: dinoccolato, l'aria un po' sfatta, lo sguardo assente. Ma a ogni domanda la risposta è provocatoria. Perché gli piacciono le sfide. Per questo, l'attore premio Oscar per Mystic River e già regïsta di tre film, quando dieci anni fa si è trovato fra le mani Nelle teme estreme, il bestseller di Jon Krakauer che raccontava la storia vera di Christopher McCandless, ha capito che doveva farne un film. Perché, dice, Chris era come lui. Uno di quei cavalieri solitari che misurano se stessi sulla capacità di sopportare la privazione. Di ogni cosa: della. civiltà, delle comodità, del cibo, dell'amore, del consenso.
Nel 1992 Chris aveva vent'anni, una famiglia pronta a dargli ogni bene di lusso e una brillante carriera davanti a sé. Ma girò le spalle a tutto. Non gli interessava. Anzi, peggio: lo allontanava da se stesso, dal significato dell'essere uomo. Così bruciò la macchina, regalò i suoi risparmi e senza nulla se ne andò verso l'Alaska per vivere, anzi sopravvivere, solo grazie alla sua forza e alla capacità di capire la natura fino a un epilogo che non prevede il lieto fine.
Sean Penn ne ha fatto un road movie, un viaggio di formazione, che, seguendo gli autori amati dal protagonista, Henry Thoreau e Jack London, fa dell'avventura e del rapporto con la natura selvaggia un'esperienza di iniziazione spirituale. Ma Into the Wild (nelle sale italiane dal 25 gennaio) è anche una critica alla società americana soffocata dalla sua inautenticità.
Presentato al Festival di Roma, '! il film ha commosso e emozionato per i suoi meravigliosi paesaggi, per la profonda sofferenza espressa dal protagonista (il giovane e promettente Emile Hirsch) nell'impossibilità di avere un rapporto con la famiglia, per una colonna sonora che commuove. E ha confermato il talento di Penn dietro la macchina da presa. «Per me il ruolo d'attore ha sempre meno importanza. Quel che mi interessa è la regia. Voglio raccontare storie che portino chi le guarda a interrogarsi su se stesso e sul mondo in cui vive» dice, l'attore che sarà il presidente della giuria del prossimo festival di Cannes, mentre si accende una sigaretta con l'altra.
Nell’ultimo anno molti registi,da Robert Redford a Brian De Palma, hanno realizzato film contro l'America di Bush. Come mai, lei che si è sempre esposto pubblicamente contro il presidente, non ha fatto un film politico?
«In un certo senso Into the Wild è un film politico. La mia è una critica indiretta, ma non per questo meno forte, alle regole insensate di una società in decadenza, ai danni del consumismo più estremo. Penso sia un sentimento condiviso da sempre più gente in America. Sento che sta crescendo questo "rumore bianco", questa insofferenza verso la mancanza di significato della vita che conduciamo, così lontana dalle cose davvero importanti e umane».
Quello che definisce «rumore», nel film sembra dipendere dalla condizione stessa dell'essere umano, come se per capire chi siamo dovessimo arrivare al limite estremo delle nostre possibilità. Ha mai superato il limite per capire chi era?
«Non penso che il problema sia capire chi sei o cercare se stessi ma piuttosto tentare di vivere la "tua" vita mentre stai vivendo. Per me questa ricerca interiore è sempre passata attraverso 2 rapporto con l'Oceano. Sono cresciuto facendo surf e il mare ti mette costantemente alla prova, ti costringe a testare giorno per giorno i tuoi limiti, la tua forza di volontà e il coraggio. Questo rapporto con la natura è stato il sollievo alla mia rabbia e ai sentimenti di disagio che ho provato in certi momenti della mia vita. Ed è quello che il protagonista del film cerca nella sua prova di sopravvivenza in Alaska».
Ma la ribellione che lei ha sempre incarnato sia nella carriera che nella vita privata da dove viene?
«Non la chiamerei ribellione, per me è semplicemente mantenere il punto: essere ciò che sono da quando sono nato. Penso che la necessità di opporsi a qualcosa faccia parte dell'essere umano». Alla società e al «sistema»» come fa il protagonista del film? «Ribellarsi contro ma anche con. Il tuo modo di sentirti nel mondo è una questione di volume, ci sono alcune cose troppo stonate disturbanti e altre che, invece, sono in armonia con la tua parte profonda».
Però in tutti i film che ha diretto c'è sempre la difficoltà della relazione con la figura paterna. La sua ribellione nasce da un rapporto difficile con suo padre Leo, regista anche lui?
«Non penso. Appartengo al club dei fortunati che hanno avuto un buon padre. Chi lo ha conosciuto mi ha detto: questo tuo carattere difficile non viene certo da tuo padre. In realtà, sono difficile perché non riesco a non "sentire" le cose che mi disturbano».
E ora cosa la disturba?
Il presidente Bush è un grido acuto che ferisce le mie orecchie».
E la società americana cosa sta facendo per «abbassare Il volume» del proprio presidente?
«Ancora non si è davvero resa conto dell'evidenza dello sfacelo. Però spero che anche quelli che portano le cuffiette alle orecchie sentano tutto questo rumore e facciano qualcosa per ridurlo».
Lei si è battuto personalmente contro la guerra in Iraq, ha fatto pubblicare a sue spese pagine di giornali contro Bush, è andato a soccorrere la gente di New Orleans dopo l'uragano Katrina. Perchè tanto attivismo?
«Perchè penso che sia necessario cercare di non cedere ciò che sei, non farti rubare giorno per giorno la tua personalità».
Into the Wild è anche il racconto di un rifiuto radicale della famiglia che spinge il protagonista a scomparire senza dare più notizie. Lei ha due figli: se si comportassero nello stesso modo li capirebbe?
«Mi piace pensare che i miei figli non debbano mai arrivare a percepire nel rapporto con me il livello di inautenticità che porta il protagonista del film a fuggire lontano dalla famiglia. Nello stesso tempo non credo ai vincoli del sangue: quindi, se i miei figli sentiranno la spinta a rifiutare la famiglia, beh è meglio che lo facciano. Ognuno deve ascoltare il rumore di fondo della propria anima».
Da Il Venerdì di Repubblica, 11 gennaio 2008
di Federica Lamberti Zanardi, 11 gennaio 2008