American Gangster

American Gangster. L’incredibile storia (vera) di due amici-nemici

Negli anni 70 un poliziotto che guadagnava poco più di mille dollari al mese trovò un milione di dollari «sporchi» nel portabagagli di un'auto. E li consegnò ai suoi colleghi. Fantascienza? No, storia vera successa a Richie Roberts, allora detective del New York Police Department. A lui è ispirato il personaggio di Russell Crowe in American Gangster di Ridley Scott, candidato al Golden Globe come miglior film drammatico. Roberts da anni indagava sul signore della droga di Harlem Frank Lucas (Denzel Washington), che aveva costruito un impero miliardario importando eroina dal Vietnam: complici alcuni soldati e soprattutto la compiacente e corrotta sezione anti-narco della polizia di New York. Convinto a testimoniare non solo centro i componenti della sua banda, ma contro la polizia stessa, Lucas scontò solo 15 anni (uscì nel 1991). E in prigione, come legale di fiducia, scelse proprio Roberts, nel frattempo diventato prima assistente del procuratore distrettuale e poi avvocato penalista. E Lucas, che dopo la prigionia ha trascorso anni in clandestinità, grazie al programma federale di protezione dei testimoni, ha chiesto proprio a Roberts di controllare che la verità fosse riportata fedelmente sullo schermo.
Roberts, il ritratto che Russell Crowe fa di lei nel film è vicino alla realtà?
«Io non avrei mai indossato certe camicie ed ero molto più pazzo e incazzato. A parte ciò, Russell ha fatto un lavoro superlativo. Tutto il film è straordinario».
Un film fedele anche alla sua vita personale?
«Un po' meno. La scena in tribunale, durante l'udienza di separazione in cui Russell Crowe ammette che la sua vita non è adatta per un bambino e lascia che la moglie se lo porti a vivere a Las Vegas, non è mai accaduta. È stata la cosa che mi ha irritato di più quando ho letto la sceneggiatura, perché io non mollerei mai mio figlio (che ora è laureato in legge e vive in Texas, ndr.). Nel film mi fanno passare come un donnaiolo, ma in quel periodo non ero sposato e avevo una tipica vita anni Settanta, un po' sballata».
È in contatto con Lucas?
«Abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma siamo rimasti amici da quando è uscito, di sua volontà, dal programma di protezione. Ha pensato che la gente contro cui testimoniò era morta o in prigione».
Durante le sue indagini Lucas mise una taglia su di lei. Aveva paura?
«Chi è coraggioso ha paura ma affronta comunque una sfida; chi non ce l'ha, è un matto. Ecco, io ero un matto, pensavo che nessuno mi potesse fare niente! Quando l'Fbi mi disse che Lucas aveva messo una taglia sulla mia vita e volevano darmi una scorta, ho rifiutato».
Perché?
«Se qualcuno vuole davvero farti fuori, non ci sono guardie del corpo che tengano. Ero anche convinto che non sarebbe stato molto saggio da parte loro eliminarmi: se mi avessero ammazzato, ce ne sarebbero stati altri cento dopo di me».
Perché ha fatto il poliziotto?
«Durante l'università mi hanno dato una borsa di studio per il football e mi sono rovinato un ginocchio. Così prima sono entrato nei Marines e poi nella polizia. In quegli anni, a Newark, nel New Jersey, tutti conoscevano qualcuno nella mafia, che controllava la città: il mio distretto era sotto la famiglia Lucchesi e la famiglia Bruno di Philadelphia. Sapevo chi erano e quando sono entrato in polizia mi hanno chiesto di infiltrarmi sotto copertura. Poi sono stato messo a capo di una task force per indagare su Lucas».
E come è arrivato alla procura distrettuale?
«Quando è arrivato il momento del processo, mi sono reso conto che conoscere la legge mi avrebbe permesso di ottenere di più. Così mi sono iscritto a Giurisprudenza e per quattro anni ho studiato di notte. Sono diventato assistente del procuratore distrettuale, e il mio stipendio è passato da 17 mila dollari l'anno a 14 mila. Il processo è durato cinque mesi, ho perso sette chili. Quando è finito, tutti gli avvocati dell'accusa avevano guadagnato un sacco di soldi. Io mi sono dovuto far prestare 500 dollari per portare mia moglie in Florida. Lì ho capito che qualcosa che non andava. Ho mollato il mio lavoro di procuratore distrettuale e sono diventato avvocato penalista. E sa chi mi ha convinto a farlo? Frank Lucas».
Nel film, lei viene isolato come un appestato perché ha consegnato il famoso milione di dollari: è andata davvero così?
«No. Hanno esagerato: alcuni avranno pensato che ero un cretino, ma non chi mi conosceva. Non tutti i poliziotti sono corrotti».
Cosa è successo agli agenti Infedeli che si vedono nel film?
«Alcuni sono stati condannati, altri costretti a dare le dimissioni».
Che tipo era Lucas? Bello come Denzel Washington?
«No. Ovviamente era un uomo molto potente e carismatico, si vestiva bene, ma non come Denzel, e non era così eloquente, mi creda. Ho temuto che il film potesse trasformarlo in un personaggio troppo positivo. Perché anche se siamo diventati amici, non volevo che la gente uscisse dal film sognando di diventare un narcotrafficante».
Da Il Venerdì di Repubblica, 4 gennaio 2008

di Silvia Bizio, 4 gennaio 2008