88 minuti

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Un film di Jon Avnet. Con Al Pacino, Alicia Witt, Amy Brenneman, Leelee Sobieski, Benjamin McKenzie.
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Titolo originale 88 Minutes. Thriller, durata 108 min. - Germania, USA 2007. MYMONETRO 88 minuti * * 1/2 - - valutazione media: 2,55 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

LA grande bellezza (reazione a caldo) Valutazione 0 stelle su cinque

di 31100 Treviso


Feedback: 108
domenica 16 marzo 2014

La grande bellezza

(reazione a caldo)

 

L'impianto o il 'frame' ideologico del film si colloca nel vecchio solco di un dibattito sulla relazione tra un luogo, Roma, e una tradizione – quella della Roma barocca e post rinascimentale che si è ormai fissata nel cliché della decadenza 'italiana'. Questa trasforma i personaggi in attori costretti (volontariamente) a recitare in un palcoscenico in cui il cliché della 'grandezza antica' li schiaccia e allo stesso da loro vita. Si trovano, nel migliore dei casi, a fare da cinica 'coscienza critica' di quella decadenza (il protagonista), o ad inventarsi ruoli salvifici, pseudo-elitari, o più spesso a prostituirsi. Per avere un ruolo in questa 'recita', il corpo e la sua esposizione ossessiva diventano il lascia-passare per l'unica vetrina in cui il 'discours politique' ha inventato uno spazio pseudo-vitale. La 'decadenza' sta nel fatto che il 'discours politique' (e qui entra in gioco il 'ventennio', il secondo e più recente nella breve storia italiana) ha trasformato la 'pseudo-vita' nell'unica vita immaginabile, quindi l'unica vita vera. La decadenza, in questo caso, subentra quando la fiction (come ideologia) invade tutto lo spazio del supposto reale. In altre parole, la 'grande bellezza' - come si deduce bene nelle parole del protagonista alla fine del film - è 'altrove' . Il film non fa che trasformare quella Roma nel setting di un 'reality' televisivo : ecco perché i personaggi che popolano quel setting, in cui tutto è finto (tranne l'arte antica, che però diventa elemento ironico e paradossale), sono i perfetti interpreti di quel vuoto, veri morti esposti e in movimento.

 

La ritualità cattolica, barocca e corrotta (come testimonia la figura contorta e mortifera della monaca che sale la scala in ginocchio nella quale il 'ricciolo barocco' si è trasformato in un rinsecchito accartocciamento) recita esattamente come recita la disperazione festante che riempie la rappresentazione. La rappresentazione del vuoto che solo le festicciole e le chiacchiere possono parzialmente velare ha il suo fastoso doppio nello sfondo architettonico romano e cattolico. Gli attici che danno sul Colosseo, abitati indifferentemente da prelati, da dandies o da mafiosi – sono il back-cloth della recita esattamente come lo sono le chiese e la Roma ecclesiatica e monumentale.

 

E' chiaro che senza gli attici, le piscine interne ed esterne, i giardini pensili, la carne giovane, oppure meno giovane ma comunque abbiente, quel mondo non avrebbe 'materia' per sussistere. Le giovani monachelle che attraversano la scena sono dunque le giovani avviate ad un rito prostibulare. Soli i bambini che preferiscono il gioco autentico (e semplice, come nella scena che precede la performance 'pittorica') sono sospesi in un mondo 'innocente' – ma è solo questione di tempo... sono già pronti a fare il salto in cui diventeranno irriconoscibili – come la bimba finta isterica alla fine della performance.

 

La rappresentazione irrinunciabile del sentimento dell' inutilità è il vero legame che tiene in vita i personaggi – quando si perde questo attaccamento, si spalanca la porta del suicidio. In fondo, è proprio la consapevolezza che la vita si 'riduce' in una rappresentazione a sdrammatizzarla. Come la scena della ragazzina pittrice che mette in scena non l'arte ma il suo gesto performativo – simulando nevroticamente una sofferenza che fa parte della sceneggiata per adulti i quali hanno bisogno dell'arte come simulacro della propria 'rilevanza' sociale ed intellettuale. Questo finta patina intellettuale giustifica la fruizione di privilegi che rende 'vera' la loro alterità.

 

Quella specie di Sancho Panza che è Verdone, chiaramente un fatuo e retorico 'stupidotto', fa l'unica cosa giusta : lascia Roma. 'Condannandosi' al mondo dei normali, sparisce nella nebbia di un mondo che, essendo fuori di Roma, è periferico e inimmaginabile.

 

Il film non mi pare ammiccare al 'berlusconismo' se non nella misura in cui diventa inevitabile. In questo senso lo trovo ben riuscito. Certo però resta una visione 'decadente' che suscita delle riflessioni sull'Italia (e su Roma) già pienamente accolte da almeno un paio di secoli – ricordiamo la visita di Leopardi nella capitale dello Stato Pontificio del 1823, il suo incontro con antiquari che non sapevano una parola di latino e l'impossibilità di fare una conversazione in Italia (cioè a Roma)... . Una visione amara ed imbarazzante ma che non racconta un'altra Italia che, per fortuna, esiste...

 

Sergio Caregnato

(sergiocaregnato@gmail.com)

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vapor martedì 19 agosto 2014
troppo calda la reazione
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tanto che hai sbagliato film

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