12 giurati hanno il compito di decidere la sorte di un giovane ceceno accusato di parricidio. Inizialmente sembra tutto deciso, facendo intendere che hanno assistito ad un processo le cui prove inchiodavano il ragazzo alle sue responsibilità: tuttavia, alla prima votazione, uno dei giurati si mostra titubante, vota per l'assoluzione con l'intento di prendere tempo e portare gli altri giurati a giudicare con i tempi giusti, a riflettere senza fretta, visto che la loro decisione avrebbe cambiato la vita di un ragazzo che non avrebbe più assaporato la libertà.
Man mano, una votazione dopo l'altra, sorgono nuove ipotesi, nuove riflessioni sul concetto di giustizia (di cui personalmente i giurati hanno fatto conoscenza), nuove rivelazioni scaturite dalle prove troppo frettolosamente analizzate dalla difesa.
Alla fine, quando il verdetto sembra deciso e chiaro, si trovano ad affrontare un tema ben più impegnativo: dove finisce la giustizia, dove inizia la compassione; dove finisce la legge e inizia la morale; qual'è il limite che definisce la nostra responsibilità verso la società, verso un bene più grande.
E' un film di una complessità che difficilmente si può trascrivere in poche righe: anche perché tutta la pellicola (quasi tre ore) si sviluppa al chiuso di una palestra scolastica che fa da sfondò alle grande abilità interpretative dei 12 attori; la loro maestria nel recitare la parte, rendendo al meglio il loro personaggio mai troppo schematico, permette di cogliere un senso che va oltre la sceneggiatura; di conseguenza, c'è bisogno di un contatto empatico che una recensione non può offrire, soprattutto quando il livello è così alto: bisognerebbe essere un Nikita Mikhalkov della scrittura per trasmettere il senso del film senza rivelare troppo della storia. Alcuni dei monologhi rendono così partecipi, come se ascoltassimo delle confessioni mai fatte ad alta voce, da tramutarsi meccanicamente in emozioni/riflessioni, pensieri e parole che parlano all'uomo, non all'individuo: da sottolineare l'esperienza riportata dall'ultimo giurato (Sergei Garmash) e dal presidente della giuria (Mikhalkov).
Oltre ciò Mikhalkov ci propone anche delle scene tragiche degli scontri in Cecenia, delle perdite e delle sofferenze che il nostro “imputato” ha dovuto subire: ironicamente, tutto quello che lui ha subito non è stato sottoposto al giudizio di una giuria!
Per quanto riguarda la regia si può solo dire che si raggiungono delle vette che in pochi altri film ritroviamo: quasi tre ore di film che ti coinvolgono, mai banali, mai sopra le righe, equilibrate, nonostante gran parte del film sia quasi una trasposizione teatrale a scena unica. I piani di lettura e le riflessioni veicolate dalla pellicola non si contano: basta pensare al finale, a sorpresa, in cui lo stesso Mikhalkov (nella parte del presidente della giuria) ci porta a interrogarci su cosa significa “giusto”, su quali siano le nostre responsabilità nei confronti del prossimo: anche quando “abbiamo fatto un ottimo lavoro, scrupoloso, difficile, siamo riusciti a stabilire la verità” siamo assolti dalle nostre responsabilità? delegare alla collettività, alle istituzioni umane significa lavarsi la coscienza se sappiamo che tali istituzioni non funzionano?
Da regista e presidente della giuria interroga i solerti giurati ma anche quelli più volenterosi e di animo buono si defilano perché occupati dalle loro vite: interroga noi e la nostra coscienza collettiva, perché anche i più buoni e volenterosi di noi, dalla coscienza legalmente pulita, spesso voltano le spalle a quello che non funziona: "è finita, riuniuni inutili, parole inutili, valutazioni imprudenti...vanno così le cose".
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