Il diavolo veste Prada

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Un film di David Frankel. Con Meryl Streep, Anne Hathaway, Stanley Tucci, Simon Baker, Emily Blunt.
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Titolo originale The Devil Wears Prada. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 109 min. - USA 2006. uscita venerdì 13 ottobre 2006. MYMONETRO Il diavolo veste Prada * * - - - valutazione media: 2,44 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Glamour griffatissimo condito in salsa di sfida. Valutazione 2 stelle su cinque

di GreatSteven


Feedback: 70018 | altri commenti e recensioni di GreatSteven
giovedì 10 agosto 2017

 

IL DIAVOLO VESTE PRADA (USA, 2006) diretto da DAVID FRANKEL. Interpretato da MERYL STREEP, ANNE HATHAWAY, STANLEY TUCCI, EMILY BLUNT, SIMON BAKER, ADRIAN GREINER, GISELE BUNDCHEN, TRACIE THOMS

Andrea Sachs è una ventitreenne fresca di laurea che desidera lavorare come giornalista. Deve però farsi le ossa per avere una maggiore sicurezza di acquisire un posto sicuro, così sceglie, senza sapere a cosa sta andando incontro, di fare un apprendistato nel mondo della moda, e si trasferisce da Chicago a Manhattan, entrando nella sede centrale della rivista Runway, la cui direttrice, l’algida e superba Miranda Priestly, è considerata una leggenda vivente delle griffe e dei costumi internazionali. Andy, come la soprannominano gli amici intimi, conta di restare soltanto un anno alle sue dipendenze come seconda assistente, istruita dalla prima, Emily Bunch, sua coetanea decisa a dettare legge e a chiarire le rispettive posizioni fin dal primo giorno di lavoro, ma ben presto scopre che Miranda, dietro una maschera di inavvicinabile celebrità, nasconde un’anima velenosa, cinica e volubile, che trasforma il suo trantran quotidiano in un inferno sotto la firma di Valentino e Oscar De La Renta. Nonostante le difficoltà iniziali, però, Andrea si afferma e riesce a conquistarsi la stima della collega, della datrice di lavoro e di Nigel, il primo collaboratore fidato di Miranda e suo smaliziato braccio destro nelle manifestazioni importanti; e, rinnovando dietro l’insegna dello stile modaiolo il suo abbigliamento e il suo look, riesce ad ottenere numerosi successi degni di nota, finendo addirittura ad accompagnare Miranda nella trasferta a Parigi per la settimana della moda e capitando, tramite la spedizione di alcuni sperimentali articoli giornalistici, sotto l’ala protettrice e le grazie affettive di Christian Thompson, professionista freelance che le riserva tanto attenzioni lavorative quanto sentimentali, o di pretesa tale. Ma la responsabilità guadagnata le pesa e non la soddisfa più, il che la spinge a licenziarsi dal posto ormai rinsaldato alla Runway ed entrare presso la testata del New Yorker, con la liquidazione/benedizione di Miranda che credeva, a torto, di vedere in lei una parte consistente di sé stessa. Tratto dal romanzo di Lauren Weisberger, è una spietata narrazione del settore della moda mediante la raffigurazione della sua rappresentante meno docile e condiscendente, capace di ossessionare la sua dipendente con le pretese più assurde agli orari più scomodi e rendendole l’esistenza davvero ardua con la speranza di inculcarle un senso del dovere che fa tutt’uno col suo ruolo professionale che le consente di tiranneggiare individualmente chiunque interagisca sul lavoro che lei stessa si ritiene l’unica in grado di svolgere. A. Hathaway non è dal peso sbagliato o di aspetto non indicato per il ruolo, come alcuni critici scrissero, ma la sua non completa aderenza al ruolo della protagonista dinamica risiede nella sua incapacità di addentrarsi nella natura di una giovane rampante che rinuncia temporaneamente alla penna e alla creatività saggistica per rispondere ad un telefono e portare caffè e libri ad una superiore deposta che nasconde le sue fragilità di donna frustrata: il suo confronto recitativo con la Streep, con un personaggio costruito su misura che non le fa sbagliare un accenno di intensità né una tensione drammatica al punto giusto, dopo un po’ perde di credibilità e la fa sentire su un livello sfalsato che non regge appieno il paragone. Ottimi, invece, i personaggi di contorno, a partire da una E. Blunt sulla cresta dell’onda della popolarità che fa la compagna di lavoro saccente che impartisce lezioni di cinismo per poi vedersi surclassata a causa di un raffreddore e un incidente stradale inopportuni che la spodestano dal suo rango faticosamente conquistato, passando poi per S. Baker che recita con brio nelle vesti del libero professionista a caccia di avventure amorose, ma pur sempre attaccato alla qualità del dattiloscritto giornalistico, e per l’eccezionale S. Tucci, sempre più infallibile interpretazione dopo interpretazione, un "capitano in seconda" che alterna con sarcastica abilità l’edonismo all’autoironia, condendo il tutto con un gustoso pizzico di pathos che regala risate assicurate. Ma la colpa peggiore di questo discreto adattamento cinematografico, troppo in bilico fra la commedia spuria e il film romantico, è l’aver negato a sé stesso, contrariamente alle indicazioni della versione cartacea, una discesa profonda nella drammaticità dei sentimenti che animano i personaggi: in generale, si nota un’eliminazione del rischio di esaurimento nervoso cui va incontro Andy quando Miranda la assilla di giorno in giorno con richieste sempre più pressanti e inosservanti delle sue esigenze, ma il calcolo economico da business show si avverte anche nel raddolcimento delle circostanze inerenti all’incidente in cui viene coinvolta Emily, troppo zuccheroso e privo di quell’intensità che traspariva invece dalla pagina dell’autrice. Una leggerezza che paga il suo scotto con la sua medesima presenza, che fa perdere alla vicenda credibilità e la inserisce in un contesto di déjà-vu piuttosto imbarazzante. Molti personaggi reali dell’universo della moda compaiono nel ruolo di sé stessi. Buone le scenografie che ritraggono, con colori fortunatamente non troppo invadenti, la Grande Mela sotto l’egida delle celebratissime marche che distribuiscono abiti, capi vestiari, sciarpe, borse e calzature in tutto il globo, affrescando la storia e risollevandola dalle deficienze di sceneggiatura con contributi tecnici di stampo tutt’altro che modesto, fra cui è doveroso annoverare una colonna sonora con decenti canzoncine incalzanti, tutte rigorosamente eseguite da performers femminili, e un montaggio che si mantiene per la normalità tranquillo, salvo poi mettere la quarta marcia nel dipingere il quadro della frenetica velocità metropolitana in cui la novizia protagonista si ritrova obbligata a muoversi, rischiando di venire investita da automobili e non riuscendo spesso ad incastrare orari e coincidenze. I momenti meglio riusciti, da una prospettiva che concilia la commozione con l’umorismo senza farli per forza incontrare, sono: la ricerca del manoscritto non edito di Harry Potter; la sfilata delle modelle che indossano i costumi sgargianti sulla riva del fiume sotto al ponte; le feste notturne della Hathaway col fidanzato e gli amici d’una vita; lo sfogo di pianto di una Streep senza trucco e sotto le righe in una sera parigina in una suite royale; la rivincita finale con getto del cellulare in una fontana e la presa di coscienza della propria autonomia operativa e, in fin dei conti, anche artistica. Rimane comunque un esercizio di virtuosismo sul pianeta degli stilisti, uno dei campi dell’arte più ardui da esaminare col mezzo cinematografico, ma il risultato finale strappa appena la sufficienza, malgrado il rodaggio improbo del cast e la riconciliazione ossessiva e spasmodica delle consuete rivalità femminili che da troppo tempo, e sempre in film recenti, vediamo sul grande schermo. Lo status symbol di cui si investe Miranda Priestly è però interessante se guardato con occhio sociologico: è proprio la sua altolocata posizione, e non altro, a permetterle di spadroneggiare senza dover rendere conto a nessuno della propria fastidiosa insolenza, né garantire il rispetto di norme che, anche al cinema, costituiscono parte integrante di un patto fra capi benestanti e sottoposti in cerca di successo. In fondo l’accordo, come suggerisce il titolo medesimo, fra Andrea e Miranda appare sotto lo stendardo del diavolo: un patto, appunto, che non si sa a chi arrechi più beneficio e chi danneggi di più!

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