antonello villani
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lunedì 21 agosto 2006
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"sport movie" politically correct
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Ennesima trasposizione cinematografica di imprese che sono entrate nella leggenda, “Glory Road” si affida allo spettacolo adrenalinico dei matches per vincere la scommessa al botteghino. Tifo e agonismo, la ricetta degli "sport movie" è semplice ma efficace e le uscite recenti -anche un film sul golf: "Il più bel gioco della mia vita"- confermano il trend di questi ultimi anni. Stati Uniti, 1965. Don Haskins, allenatore di basket ingaggiato da un college per il torneo universitario di pallacanestro, mette in piedi la prima squadra di colore della storia americana. L’esordiente James Gartner conosce alla perfezione i meccanismi del genere, dirige i cestisti in erba con una perizia fuori dal comune ma scivola nella retorica filosofeggiando su discriminazioni e diritti civili.
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Ennesima trasposizione cinematografica di imprese che sono entrate nella leggenda, “Glory Road” si affida allo spettacolo adrenalinico dei matches per vincere la scommessa al botteghino. Tifo e agonismo, la ricetta degli "sport movie" è semplice ma efficace e le uscite recenti -anche un film sul golf: "Il più bel gioco della mia vita"- confermano il trend di questi ultimi anni. Stati Uniti, 1965. Don Haskins, allenatore di basket ingaggiato da un college per il torneo universitario di pallacanestro, mette in piedi la prima squadra di colore della storia americana. L’esordiente James Gartner conosce alla perfezione i meccanismi del genere, dirige i cestisti in erba con una perizia fuori dal comune ma scivola nella retorica filosofeggiando su discriminazioni e diritti civili. Emozionante ed avvincente, “Glory Road” ha la struttura dei film sportivi, un’alternarsi di vittorie e sconfitte -il campo di parquet diventa una metafora della vita- che tiene il pubblico col fiato sospeso. Così alcuni ragazzi di colore senza arte né parte vengono reclutati da un coach che ha sempre creduto nella “disciplina e nelle cose semplici”; l’ostracismo della piccola cittadina non approva la scelta del mister mentre la Pantere Nere di Malcom X ed i sogni di Martin Luther King lasciano un segno indelebile nella coscienza americana: Gartner gioca la carta della politica ma siamo ben lontani dal cinema impegnato di Spike Lee. Manifesto civile veicolato attraverso gli incontri che si susseguono senza sosta per tutto il midwest, “Glory Road” può contare sulla presenza scenica di Josh Lucas –il bellone di “Poseidon” e “Stealth” è l’allenatore tutto cuore che porta il piccolo college del Texas nella leggenda- Jon Voight, nella parte dell’antipatico coach Adolph Rupp, ed alcuni esordienti che si divertono come matti a buttare la palla a canestro. La finale del campionato NCAA è vicina, i ragazzi della Texas Western Miners compiono un'impresa destinata a rimanere negli annali, i pregiudizi di una società che fatica ad accettare l’integrazione vengono finalmente scardinati. Perchè lo sport avvicina popoli e culture superando qualsiasi ostacolo: il miracolo è compiuto. Lo spirito di De Coubertin aleggia nelle palestre della scuola, il pubblico partecipa emotivamente al match che cambierà la storia del basket mentre le immagini di repertorio con le interviste ai veri protagonisti scorrono nei titoli di coda. Gartner conosce il mestiere, il film funziona anche se qualche sbavatura rischia di mandare tutto all'aria. Allenatori e giocatori, tutti a fare la loro parte.
Antonello Villani
(Salerno)
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zombiturbo
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martedì 25 settembre 2012
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basket? e' bello!!!
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Il Basket è senza dubbio uno degli sport che meglio si prestano all'argomento dell'integrazione razziale negli USA, e qui in Indiana, che è forse la patria del basket a stelle e strisce, si compie il destino di un team entrato nella storia con l'impeto di chi segna un punto di rottura tra passato e presente. Sotto lo stesso cielo e le stesse plance si ritrovano, e non per caso, atleti di diverso colore che non si scordano la loro provenienza neanche per un attimo, e imparano il rispetto per sè stessi e per i compagni di squadra, decretandone l'assoluto valore morale. A tutto questo si aggiunge un burattinaio che viene dai campionati femminili, Don Haskins, che riesce a far breccia sul gruppo con la forza delle proprie idee.
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Il Basket è senza dubbio uno degli sport che meglio si prestano all'argomento dell'integrazione razziale negli USA, e qui in Indiana, che è forse la patria del basket a stelle e strisce, si compie il destino di un team entrato nella storia con l'impeto di chi segna un punto di rottura tra passato e presente. Sotto lo stesso cielo e le stesse plance si ritrovano, e non per caso, atleti di diverso colore che non si scordano la loro provenienza neanche per un attimo, e imparano il rispetto per sè stessi e per i compagni di squadra, decretandone l'assoluto valore morale. A tutto questo si aggiunge un burattinaio che viene dai campionati femminili, Don Haskins, che riesce a far breccia sul gruppo con la forza delle proprie idee. L'ascesa per arrivare al titolo è dura ma i ragazzi riescono a resistere a tutti gli scossoni che il mondo, razzista e cinico, loro assesta. In un crescendo tipicamente americano, i sogni sembrano materializzarsi all'interno di questa squadra di minatori "Miners". Sport, studio, vita sociale, riescono a penetrare sempre più nello spirito dei giovanotti quasi uomini. E uomini lo diventeranno sempre più avvicinandosi alla meta ambita. Il pestaggio di un nero prima delle partite decisive e le loro camere imbrattate per spaventarli fanno diventare definitivamente adulta la squadra che deve affrontare con spirito diverso le Finals di stato. La partita finale contro i bianchi del Kentucky, almeno fino al '71, governati dal mostro sacro Rupp e con nientepopodimeno Pat Riley da avversario, altro coach e GM di successo nell'NBA, decreterà il finale che segnerà la svolta nel basket moderno: un quintetto di soli neri in campo. Giù il cappello agli atleti, chapeau anche agli attori che comunque fanno bene il loro dovere.
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