Takeshis'

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Paolo D'Agostini

La Repubblica

Il «film sorpresa» del concorso doveva essere A new world di Terrence Malick e non Takeshl’s di Kitano? Il presunto giallo non ci (e sicuramente non vi) appassiona: siamo contenti così, e lo saremo quando porremo vedere il nuovo film di Malick. Fedele al proprio stile impassibile da «tragico buffone» il regista e attore giapponese realizza con questo film un progetto accarezzato a lungo: la storia (anche se nel suo universo narrativo destrutturato «storia» è parola grossa) di uno sdoppiamento dove uno dei due personaggi si chiama Beat Takeshi, con il nome d’arte nato per gli esordi cabarettistici di Kitano e poi usato lungo la sua carriera di attore, ed è una star di popolari film-yakuza per la tv. Mentre il secondo è un suo sosia tinto di biondo, timido e taciturno, aspirante attore sfigato, sognatore incallito. Entrambi i personaggi sono interpretati da lui. Scoraggiando ogni affanno di decodifica dei significati e ogni tentazione di lettura autobiografica, Kitano ripete: «Non pretendo che capiate il contenuto, voglio che vi divertiate. Non voglio che vi sforziate di pensare a chissà quali profondità: è solo un film. C’è dell’amarezza sul fondo? Mi dispiace per chi ha pagato il biglietto».
Non staremo ad accanirci su quel tanto d’ipocrisia o vezzo che simili affermazioni nascondono sempre - Kitano non è meno convinto di altri di fare cinema «artistico» - e semmai ci interrogheremo su questo: è veramente divertente? Nato nel ‘47 a Tokyo da famiglia non abbiente e lasciati gli studi, Takeshi Kitano approda in un cabaret da inserviente. Comincia a recitare per caso, per sostituire un comico. All’inizio degli anni 70 nasce il duo dei «Beats» e il giovane Kitano s’afferma come portavoce di una nuova comicità Irriverente. Arrivano la radio e la televisione da dove la popolarità rimbalza al cinema. É vero che la sua carriera di attore ha un grande momento con Furyo di Nagisa Oshima ma il successo lo deve soprattutto ai film d’azione sulla mafia giapponese (yakuza). La star comincia a dirigere i propri film ma la svolta artistica non lo premia e solo dopo alcuni titoli senza fortuna, grazie ai festival europei, comincia l’affermazione. A metà anni 90 un grave incidente compromette parzialmente la mobilità facciale. Subito dopo la consacrazione del Leone d’oro veneziano a Hana-bi cui seguono L’estate di Kikujiro, Brother, Dolls e Zatoichi.
Dipinge, scrive libri, ora è osannato dai critici e amato dal grande pubblico. Le sue creature sono marionette violente e malinconiche, e se non sparassero tanto si direbbero figlie del cinema comico muto. «Rido delle cose che fanno paura», dice e promette che se fino a oggi i suoi film contenevano «violenza, poca cultura e poche donne, d’ora in avanti saranno dedicati alla pace alla bellezza delle donne e alla comicità». A occhio e croce, per rispondere alla domanda di cui sopra, c’è poco da ridere nel suo universo. Dove ci si tingono ridicolmente i capelli «per fare la vita più colorata». «Incontriamoci nei nostri sogni» esorta una battuta del film, perché il resto è grigiore e fallimento.
Da La Repubblica, 3 settembre 2005


di Paolo D'Agostini, 3 settembre 2005

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