Munich

Paolo D'Agostini

È un film "da non mancare" non perché sia eccezionalmente bello. Ma per il suo contenuto, per come Spielberg - ebreo impegnato nella difesa della memoria delle persecuzioni e della causa israeliana - lo ha trattato. Ciò che è universalmente noto costituisce l'avvio del film. L'incursione di otto palestinesi di Settembre Nero nel villaggio olimpico di Monaco, durante i Giochi che videro trionfare il nuotatore Mark Spitz, all'alba del 5 settembre 1972; l'uccisione di due atleti israeliani (che in parte erano militari) e il rapimento di altri nove; l'epilogo ventuno ore dopo sulla pista dell'aeroporto con l'uccisione degli ostaggi da parte dei rapitori e quella di cinque rapitori da parte della polizia tedesca.
Il resto di Munich ricostruisce, non è detto su quali fonti se non il libro "Vendetta" del giornalista George Jonas, ciò che ufficialmente non è mai stato ammesso. L'operazione segreta autorizzata dal governo di Golda Meir e attuata da agenti "coperti" del Mossad, il cui obiettivo era di trovare, a Roma a Beirut o a Parigi, e uccidere undici dirigenti palestinesi ritenuti mandanti o corresponsabili di Monaco. Venne attuata alcune settimane dopo (e di uno dei veri commando fece parte il futuro premier Barak), quando già era stata attuata una rappresaglia militare contro i campi profughi in Giordania, Siria e Libano (lo ha raccontato Sandro Viola su la Repubblica di mercoledì).
I personaggi che nel film si raccolgono intorno al giovane agente scelto dal governo - figlio di un eroe nazionale, uomo mite, innamorato della moglie dalla quale aspetta un figlio - rappresentano un ventaglio dei possibili modi di sentirsi ebreo, di sentirsi israeliano, di onorare la memoria, di servire la patria, di chiedersi o non chiedersi se e fino a che punto sia giusto affidarsi all'assassinio e si rimanga giusti a usare questi metodi. Quelli che in un vertice politico-militare a inizio film Golda Meir, capo di un governo libero di uno stato democratico e non di una setta o di una dittatura, con tono sofferto ma determinato dichiara legittimi. Sono, evidentemente, le domande che Spielberg si pone mettendo in scena i sentimenti del suo popolo ma anche le ragioni degli avversari.
Si è detto, non senza spunti polemici, che Spielberg è giustificazionista verso i palestinesi: e lui ha risposto di non credere all'escalation delle armi ma alla trattativa, aggiungendo di essere pronto a dare la vita per Israele. Eppure la sensazione che il film lascia è quella che non ci sarà mai scampo, che le reciproche ostilità e paure sono troppe perché si riesca a far tacere le armi. Forse Spielberg non voleva, ma il magone con cui si esce dal film è questo.
da La Repubblica, 27 gennaio 2006


di Paolo D'Agostini, 27 gennaio 2006