Arianna Finos
Il Venerdì di Repubblica
C‘è grande poesia in questa storia di bambini in guerra che aprono un armadio e immaginano una terra creata da loro, dove tutto sarà diverso. Oggi tutti sono bambini in guerra» dice Tilda Swinton al telefono dalla sua casa in Scozia. La prospettiva dell’attrice, tra i protagonisti delle Cronache di Narnia: Il leone, la strega e il guardaroba, presentato oggi in anteprima al Courmayeur Noir in Festival, è completamente diversa da quella con la quale i media americani in questi giorni trattano il kolossal Disney di Natale, già ribattezzato «La passione di Gìbson in versione ragazzino».
Già, perché la trasposizione cinematografica del romanzo scritto dal professore di Oxford Clive Stapies Lewis è vista da molti come la bandiera per una campagna dei neo-con americani, all’insegna dell’indottrinamento cristiano delle famiglie americane. Il leone, la strega e l’armadio è uno dei sette volumi realizzati dallo scrittore cattolico a partire dal 1950: racconta di quattro fratellini sfollati dalla Londra dei bombardamenti nazisti e ospitati nella casa di campagna di un professore.
Qui, attraverso l’armadio, scoprono l’accesso al magico mondo di Narnia (il nome è quello latino dell’odierna cittadina umbra Narni). Il re di questo Paese, avvolto dalla nevi eterne e popolato da animali parlanti e creature mitologiche (fauni, centauri, ciclopi), è il leone Aslan, che si sacrificherà, ucciso dalla terribile Strega Bianca (Tilda Swinton), per risorgere dal sepolcro e salvare Narnia dal perenne inverno senza mai Natale. «Nell’immaginare Aslan» scriveva lo stesso Lewis «mi sono chiesto: come potrebbe essere Cristo se ci fosse un mondo come Narnia ed egli scegliesse di incarnarsi e morire e risorgere nuovamente come ha fatto nel nostro?».
Negli Stati Uniti la Disney ha imitato la strategia di marketing già usata con successo da Mel Gibson (la sua Passione di Cristo ha incassato 600 milioni di dollari). Le cronache di Narnia, infatti, è stato presentato in anteprima nelle chiese e, proprio facendo leva sul contenuto religioso, case editrici cristiane hanno inviato alle comunità religiose pacchetti informativi sul film. Ha alzato la polemica il Palm Beach Post di Miami denunciando il fatto che il governatore della Florida Jeb Bush, fratello del presidente americano, abbia distribuito copie del libro di Lewis nelle scuole. Non sembra un caso che uno dei maggiori produttori del film sia il 75enne miliardario Philip Anschutz, generoso finanziatore del Partito repubblicano.
Tilda Swinton, notoriamente di credo progressista, nega con forza ogni strumentalizzazione della storia: «Le persone possono proiettare ciò che vogliono su qualunque cosa: questo è un film molto semplice ed è facile interpretarlo liberamente. L’idea della trasformazione attraverso il sacrificio non è esclusivamente cristiana, è centrale per molti pensieri religiosi. lo credo che Lewis abbia scritto questi libri con un altro pensiero in testa: fare una storia per bambini che potesse arrivare veramente lontano». La convinzione dell’attrice, che superbamente incarna la regina dal cuore di ghiaccio che ha usurpato il trono di Narnia, è pienamente condivisa dal regista Andrew Adamson (quello di Shrek) che ha sempre negato ogni valenza religiosa della pellicola sforzandosi, invece, di trasporre sullo schermo il suo romanzo preferito da bambino nel modo più fedele possibile.
Il film, specie nella sua prima parte, l’emozionante prologo nella Londra dei bombardamenti (ampliato rispetto al libro), quindi la scoperta del mondo innocente e magico di Narnia da parte della piccola Lucy e dei suoi fratelli, si rivela capace di evocare l’atmosfera incantata del romanzo. Probabilmente sarebbe piaciuta anche a Lewis, che pure in vita aveva espresso ostilità verso una versione filmica della sua opera («la sola idea di un Aslan umanizzato in stile Mago di Oz mi pare blasfema»). Lo scrittore si mostrò perplesso anche rispetto a un film animato da Walt Disney («se solo non combinasse tanta volgarità a tanto genio»). La scommessa, riuscita, delle Cronache di Namia (nei cinema italiani dal 21 dicembre) è proprio quella di dare verità agli animali parlanti:
dal leone Aslan (che in italiano ha la voce di Omar Sharif), alla coppia di castori che si prende cura degli umani «figli di Adamo e figlie di Eva», dalla volpe ironica e coraggiosa ai lupi feroci.
Forse meno riuscite, dal punto di vista strettamente tecnico, sono le creature ibrido (innesti digitali su attori umani) come il fauno Tumnus e i centauri. Ormai abituati alle abbacinanti battaglie e ai sorprendenti effetti speciali di Il signore degli anelli, Le cronache di Narnia, che alla saga di Tolkien sul piano cinematografico qualcosa rubano, hanno un retrogusto di «già visto». Il regista Adamson, amico fraterno di Peter Jackson almeno quanto Lewis lo era di Tolkien, per la battaglia finale tra le armate della Strega e l’esercito dei buoni (epurata da scannamenti cruenti) si è avvalso dello stesso software della Trilogia dell’Anello e il make-up è stato realizzato dal Weta Workshop, lo stesso del King Kong di Jackson. Nonostante questo sforzo industriale lo stacco tra alcune atmosfere «ricreate» e gli straordinari paesaggi filmati in terra di Nuova Zelanda si notano, eccome.
A mantenere lo spettatore dentro il magico mondo di Narnia sono piuttosto la fede del regista nella fiaba, il calore dei fratelli Pevensie (specie la piccola Lucy, interpretata dalla britannica George Henley), la generosità di Aslan e la disumanità dell’esangue Strega Bianca dai magici costumi di neve e di acqua. Pensare che quando Tolkien lesse Le cronache di Narnia sconsigliò l’amico di pubblicarlo per i troppi elementi in contrasto: Babbo Natale e una strega cattiva, animali parlanti e bambini. Lewis, però, non gli diede retta e il risultato è stato che intere generazioni di bambini britannici hanno cercato, e forse trovato, mondi fantastici in fondo agli armadi e alle dispense di casa.
Da Il Venerdì di Repubblica, 9 dicembre 2005
di Arianna Finos, 9 dicembre 2005