Variegata l’umanità che si rivolge a un usuraio per soddisfare desideri e bisogni. Un’anziana signora che spergiura di necessitare di soldi per un intervento chirurgico e poi se li gioca in una sala bingo, il figlio non riconosciuto di un nobile che vuole acquistare il titolo nobiliare per accreditarsi presso il Vaticano, una signora ancora piacente che vuole stare in ambienti mondani tra giovani e cocktail, una coppia giovane con bambina che vive al di sopra delle sue possibilità, una coppia matura che desidera un “bel matrimonio” con 200 invitati per la figlia Rosalba (Laura Chiatti), miss Agropontino, la quale considera insensato che il papà s’indebiti “per offrire un pranzo a degli sconosciuti” o “per il vestito bianco”. Il genitore si sentirebbe invece umiliato a non farlo e poco tempo dopo il matrimonio avrà bisogno di soldi ancora, per il funerale della moglie.
L’usuraio in questione è, se guardiamo il film come benpensanti, un untore da additare “al pubblico ludibrio”, Geremia de’ Geremei (un grandissimo Giacomo Rizzo): un essere abietto, rivoltante, un mentecatto, irascibile tirchio falso vendicativo logorroico … uno squalo, che però è ben conscio di eccellere nell’”arte della parola, la mia grande arma vincente di seduzione” (e di ricatto). E’ con l’arte della parola e del ricatto economico, condito con parole in apparenza affettuose, che convince le sue vittime di essere L’Amico di Famiglia, il Geremia dal cuore d’oro. Ambisce a godere della bellezza di giovani mogli e ragazze, a cui non arriverebbe mai (“Dio mi avrebbe fatto un po’ più aggraziato se avesse avuto fiducia in me”), per lui esse rappresentano “il paradiso”, che qualche volta sfiora. Ne gode proprio con la più bella, Rosalba, in cambio di una forte diminuzione degli interessi pretesi sul prestito ai genitori (“non confondere mai l’insolito con l’impossibile”). Lei dice di farlo perché “il coraggio è l’unica possibilità che abbiamo di cambiare le nostre vite quando non ci piacciono più. I rimpianti ci fanno morire tristi e soli”. Un paradiso altrimenti intravisto dalle persiane con sguardi alle membra di giocatrici di volley, al rallentatore, come la bellezza di palazzi e di paesaggi che Sorrentino mostra e che mostrerà ancora ne “La grande bellezza”. “Quello che cercate l’avete già trovato” gli dice una giovane moglie (Valentina Lodovini) quando accetta suo malgrado di fargli infilare la mano nella tasca dei suoi jeans aderenti.
Con il potere che il ricatto gli permette, compensa gli affetti mai avuti, il papà a cui vorrebbe assomigliare e con cui si sente in qualche modo in competizione, “tuo padre avrebbe potuto fare un’operazione del genere, tu no”,
gli dice la vecchia madre ammalata e “tu sarai il mio ospizio”. Geremia non lo vede da quando aveva nove anni. Compensare una vita in sé miserabile in una casa malandata e inospitale, con “l’Alka Seltzer cheha raggiunto costi proibitivi”, data la sua avarizia. Mitigare forse l’assoluta mancanza di amicizia, che apparentemente troverebbe in Gino, un Fabrizio Bentivoglio in versione country, sornione come al solito. Ma, quella dell’amicizia, “è un’eventualità alla quale non avevo mai pensato”, gli dice Geremia.
E’ un film-concentrato di miserie umane, perciò simile al più recente “La grande bellezza”. Entrambi sono popolati da cose belle e da maschere umane grottesche e inquietanti. Ambedue i personaggi protagonisti hanno nomi in qualche modo solenni e un mondo mediocre che gli si muove attorno. Sembrano persistere nello scivolare verso l’abiezione (la dissolutezza nel caso di Jep Gambardella), per ritornare infine verso il ricordo della loro fanciullezza, a ripulirsi o forse redimersi: Jep sognando la fidanzata e il mare dei suoi 18 anni e Geremia cercando monete sulla spiaggia col metal-detector, cosa che forse faceva col papà da bambino. Simile a quello contenuto ne “La migliore offerta” è poi il tema dell’uomo ormai anziano, senza attenzioni femminili, che rimane soggiogato e illuso da un amore improbabile per restarne infine tradito.
Come Geremia anche Jep pronuncia sentenze sagaci a ripetizione e senza pensarci su, sembrano entrambi degnarsi di spezzare e distribuire il pane della saggezza all’umile umanità che li attornia. Il nostro raccoglie ampio disprezzo pur di raggiungere la sua preda, la Miss Agropontino, a ciò solo è volta la sua rara disponibilità: “Come si diventa disperati come te?” gli chiede Rosalba quando ancora lo repelle con tutta sé stessa: “Trascorrendo un’infanzia felice”, le fa Geremia, memore del tempo in cui ha avuto accanto suo padre. Lei lo ha apostrofato con parole come “topo, presuntuoso, un niente, non sia indulgente con sé stesso, salvarla sarebbe un delitto”.
Perdoni l’eventuale lettore la lunghezza del racconto del film, una regia e sceneggiatura che si fanno fortemente ricordare, ci sommerge di brutture e bellezze assieme, complesso, ancora più avvolgente de La Grande Bellezza. Non manca un accenno a Fellini, a cui Sorrentino un po’ somiglia per la ricchezza di personaggi e di storie, di “squali” e figure mostruose (viene in mente, chissà perché, la pettoruta di Amarcord). Memorabile la frase con cui Geremia giustifica senza vergogna la sua “funzione pubblica”: “Siete tutti in affitto, il mondo vi è stato dato solo in prestito. Io vi presto il mondo quando ogni tanto lo perdete”. E le frasi che lui pronuncia in un immaginario dialogo col padre, ricordandole come suoi insegnamenti: “Ci siamo seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati, e va bene, ci siamo detti facciamo i cattivi perché i buoni muoiono bambini, e anche questo va bene, ma ci siamo solo dimenticati di dirci qual è il limite, perché c’è il limite, papà, ma io non lo conosco”.
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