La tigre e la neve

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Un film di Roberto Benigni. Con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Jean Reno, Gianfranco Varetto, Tom Waits, Emilia Fox.
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Commedia, durata 118 min. - Italia 2005. - 01 Distribution uscita venerdì 14 ottobre 2005. MYMONETRO La tigre e la neve * * * - - valutazione media: 3,13 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Natalia Aspesi

La Repubblica

La vita è bella anche in Iraq, e il fantasioso ornino che pareva morto in un campo di concentramento per salvare la sua dama e il suo bambino, scampato per un pelo anche alla trappola di Pinocchio, riappare a Bagdad, in piena guerra, con tutto il suo fardello poetico e la sua innocente energia, armato, come sempre, tra bombe e terrore, dell’arma più invincibile e aliena, l’amore. Sono passati tre anni dallo sfortunato Pinocchio, e finalmente Roberto Benigni presenta il suo nuovo e atteso film, La tigre e la neve, di cui è regista e protagonista, come sempre.
L’omino che sorride sempre alla vita questa volta si chiama Attilio ed è un poeta capace di improvvisare, per le sue due figlie adolescenti,versi di grande :utilità domestica: come «ragno esci dal bagno» oppure «pipistrello sei tanto bello sulla tua destra c’è la finestra». A Roma insegna poesia all’università, gettandosi per terra e gridando agli studenti, «innamoratevi, sperperate l’allegria, trasmettete felicità, fatevi obbedire dalle parole!». Ha un sogno ricorrente, lui in mutande e canottiera, davanti a un prete ortodosso e tra le rovine illuminate dalla luna, che sposa la donna amata, Vittoria, vestita di bianco: e tra gli invitati ci sono Borges e Montale, Ungaretti e la Yourcenar. E Tom Waits col solito cappellino che suona e canta una sua canzone. Nel sogno, ma anche nella sua vita intrisa di versi, spesso i personaggi parlano con le parole di D’Annunzio e Majakovskij, di Caproni e Neruda, di Eluard e Tagore, un azzardo che poteva essere molto antipatico ma che Benigni, e con lui Vincenzo Cerami cosceneggiatore, sanno rendere plausibili e trascinanti, sorretti dalla musica di Nicola Piovani.
Vittoria è naturalmente Nicoletta Braschi , l’amatissima moglie nella vita, che Benigni s’ostina ad amare anche nei suoi film: qui la spettinata e un po’ arcigna signora non lo vuole assolutamente, resistendo a un corteggiamento goffo e imp1acabile. Dovunque lei sia lui c’è, e quando lei si ritrova in corna in seguito a un bombardamento americano in un miserevole ospedale di Bagdad, anche lì, miracolosamente, lui c’è. Vittoria, che è una scrittrice, era andata laggiù per intervistare il sommo poeta irakeno Fuad (Jean Reno) ed è lui ad avvertire Attilio. E mentre la Braschi per una buona parte del film resta in coma, con una certa soddisfazione degli spettatori, non un ostacolo ferma Benigni che è deciso a salvare l’amata: non l’impossibilità di raggiungere Bagdad che lui raggiungerà, fingendosi medico della Croce Rossa, non un cammello disubbidiente che lui domerà, non la mancanza di medicine che lui troverà, non un campo minato da cui si salverà, non il posto di blocco americano dove i soldati lo scambiano per un kamikaze e da cui si libererà dicendo: «Sono un poeta».
Prima ancora di aver visto il film, si è. già riformato il fronte genericamente anti-Benigni che ha il suo apice nel Foglio, un fronte che odiandolo per ragioni che non hanno a che fare col cinema, randella i suoi film non con il libero esercizio di critica, ma con lo sdegno e addirittura il disgusto, sentimenti comunque esagerati per cose di cinema. Oppure annunciano di non volerli neppure vedere già sapendoli orribili. Si sa che l’attore-regista ha per i suoi esorbitanti nemici tre grandi difetti: è una celebrità internazionale, con tre Oscar per La vita è bella, che in Italia ha avuto la cifra record di 7 milioni di spettatori, altri suoi film sono stati in cima agli incassi, in più non è di destra, situazione imperdonabile per un irresistibile comico di successo ancorché toscano. Già l’avevano inutilmente sbeffeggiato per aver osato affrontare con il sorriso un tema tragico come l’Olocausto (ma Israele aveva accolto il suo film con entusiasmo, premiandolo), adesso figuriamoci, Benigni porta i suoi monologhi di massimo divertimento nel luogo più tragico di questi ultimi anni, l’Iraq devastato dalla guerra. Quindi i suoi odiatori erano pronti ad accusarlo dì leggerezza, di antiamericanismo, chissà, forse anche di appoggio al terrorismo. Ci resteranno malissimo. Pensando probabilmente al mercato degli Stati Uniti, i soldati americani, a parte una sola azione di rastrellamento incruento, appaiono dei bonaccioni che difendono l’ospedale e che se non abbassano le armi davanti a un italiano, lo fanno per un poeta. La guerra è qui come il campo di concentramento in La vita è bella: sta sullo sfondo, senza orrore, senza sangue, senza strazio. È la vitalità di Attilio a cancellare. la realtà: lui salta irrèfrenabile tra bombe e incendi, tra gente che fugge e gente che ruba, tra carri armati che presidiano le strade e donne velate di nero che corrono nella moschea. In una fatata scena notturna lui e Fuad stanno seduti sulla testa abbattuta di Saddam, mentre la statua acefala giganteggia in un paesaggio metafisico che pare appunto un quadro di De Chirico reinventato da Fellini. Non ci sono cadaveri nelle strade per lo sguardo di Attilio, che sta correndo per la vita dì Vittoria e non ha tempo di vederli.
Ancora una volta Benigni ha bisogno di usare la realtà come una favola: non. una scena ricorda le immagini spaventose cui ci hanno abituati i telegiornali. E per esempio, evita ogni patetismo scegliendo di non mostrarci quelle che sono le vittime più rincorse dai telereporter, i bambini: la sola bimba che vediamo, non è nella polvere e nel fragore della guerra, ma nel quieto giardino di una bella casa mentre sorride e disegna serena. Un film irrealista, melenso, di buoni sentimenti, opportunista? Forse. Ma in un momento di diffuso catastrofismo, di paura, do disimpegno e rassegnazione, La tigre e la neve (ahi, alla fine in piena Roma una tigre attraversa la strada sotto i fiocchi di neve) diventa un messaggio morale necessario: non perdere mai la speranza, non arrendersi agli orrori, non accettare lo sfacelo, lottare, essere certi di farcela. E anche pregare, come fa Attilio, recitando ad Allah il Padre Nostro.
Da La Repubblica, 5 ottobre 2005


di Natalia Aspesi, 5 ottobre 2005

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