The Terminal

Antonio Monda

II film più atteso della stagione debutta nelle sale americane dopo una serie di ritocchi di montaggio voluti personalmente da Steven Spielberg per attutirne l’atmosfera kaikiana e I ‘aggiunta nel titolo dell’articolo “The” prima di “Terminal”, per allontanare la preoccupante assonanza con l’aggettivo che si usa per i mali incurabili. Ma se è vero che sin dalla prima inquadratura si riconosce il tocco inconfondibile di Spielberg, è anche vero che il film appartiene almeno ad altre due persone: l’uomo che ha ispirato l’incredibile vicenda, di nome Mehran Kanini Nasseri, e Andrew Niccol, lo sceneggiatore che per primo l’ha adattata per lo schermo, dopo che la produzione ha ottenuto i diritti da Nasseri per 275 mila dolIan.
The Terminal, che inaugurerà il prossimo festival di Venezia, racconta di una persona di nome Viktor Navorsky (un magnifico Tom Hanks), che rimane bloccata all’areoporto JFK quando scopre che durante il suo viaggio aereo verso NewYork c’è stato un colpo di stato nel suo paese di provenienza, denominato Krakhozia. Nasseri, un iraniano che ha vissuto all’interno dei Charles De Gaulle per 16 anni dopo la fine dei regime dello Scia, è stato già protagonista di tre documentari, e nella realtà ha prolungato il soggiorno che lo fece diventare una star mediatica pur di ottenere che nei documenti ufficiali venisse chiamato “Sir Alfred”.
Uno spunto di partenza di questo tipo non poteva che essere allettante per Niccol, sceneggiatore dei Truman Show, che con Sacha Gervasi e Jeff Nathanson ha rielaborato una nuova vicenda di un universo chiuso, menzognero e disumanizzante. Ma il tocco di Spielberg rivoluziona in chiave umanista l’intero assunto, facendo dei film una favola morale in stile Frank Capra ed una metafora di cosa offra oggi il sogno americano.
All’interno di un aeroporto che appare in realtà troppo poco militarizzato, Spielberg fa di Navorsky un gemello ideale di E.T: una creatura gentile ed intelligente intrappolata in un posto lontano da casa, che scopre il calore e la durezza degli esseri umani. Il film contiene un evidente messaggio politico sull’America di oggi: se i personaggi positivi sono rappresentati da un indiano, un messicano ed un afro-americano, l’eroe negativo è un bianco (Stanley Tucci) che interpreta la legge senza alcuna compassione e sostituisce la pietà con la ragione. Il pubblico si commuove quando intuisce che nell’intimo nell’American Dream c’è l’idea di accoglienza nei confronti di qualunque flusso immigratorio, ma rimane turbato quando si accorge che il protagonista non ha alcuna intenzione di diventare un americano: nel momento in cui Navorsky apprende con sconcerto che “l’America è chiusa” può solo accettare il consiglio che ne consegue: «C’è solo una cosa che puoi fare: shopping».
La critica si è divisa: alla stroncatura del conservatore New York Post, che rigetta il simbolismo politico e trova debole la casta storia d’amore con Catherina Zeta Jones, si alternano gli elogi dei New York Observer a firma di Rex Reed («un film che ci fa sentire bene, pieno di originalità e dolcezza») e l’apprezzamento con riserva del New York Times, che esalta l’intepretazione dì Hanks e scrive che Spieiberg, pur«avendo a disposizione degli ingredienti artificiali e saccarinosi è riuscito a servire un soufflé gustoso e leggero».
Da La Repubblica, 19 giugno 2004


di Antonio Monda, 19 giugno 2004