Saimir

Federica Lamberti Zanardi

Paesaggio pasoliniano, protagonisti da neorealismo, una storia dura di emarginazione, conflitto generazionale, ribellione. È Saimir, opera prima di Francesco Munzi, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia e alla Berlinale. Finora lodato dalla critica, arriva il 29 aprile nelle sale. Racconta di un sedicenne albanese che vive con il padre Edmond in un luogo desolato del litorale laziale. Una vita di solitudine scandita dai viaggi con il padre per raccogliere i clandestini che arrivano sulle spiagge e portarli nelle campagne dove li aspettano i «padroni», pronti a usarli come schiavi.
Un’umanità comprata e venduta, abbandonata per strada come un ferro vecchio. «Stranieri che, però, raccontano la nostra Italia in modo forte ed efficace» spiega il regista, romano, 36 anni, una lunga esperienza da burattinaio che gli ha insegnato a «guardare» la gente, a «sentire» il pubblico. «Prima di girare ho fatto lunghi sopralluoghi nella striscia fra Torvajanica e Ostia e ho scoperto che d’inverno quei posti si trasformano. Diventano luoghi altri, dove la lingua parlata è l’albanese o il rumeno, perché tutte le case delle vacanze sono affittate a extracomunitari. È una sensazione straniante. Quella stessa che ho cercato di riportare nel film».
Su queste spiagge desolate, fra vecchi stabilimenti balneari, Saimir vive la sua crisi adolescenziale, il suo conflitto fra quello che è costretto a essere e ciò che vorrebbe diventare. Fra la condanna a una vita fatta di piccoli crimini, abusi, e la possibilità di cambiare, di nascere una seconda volta. E come in tutte le crisi di crescita, bisogna uccidere il padre. Anche se in modo simbolico. «Saimir è soprattutto il racconto di un rapporto padre-figlio. L’analisi di una relazione forte, ma anche molto conflittuale. Per crescere Saimir dovrà spezzare il legame con la famiglia. E lo farà per salvare una ragazza sola e disperata».
A dare volto, occhi, anima a Saimir è Mishel Manoku, adolescente dì Tirana, incontrato per caso da Munzi. «Ero stato molti giorni in Albania per cercare il protagonista del film. Avevo fatto tanti provini, ma nessun ragazzino che avevo visto mi aveva convinto. Così stavo tornando a Roma, sconsolato. Ma mentre ero in auto e andavo all’aeroporto, un motorino quasi mi investe. Lo guidava Mishel. Quando ho incontrato i suoi occhi, strafottenti e malinconici, ho capito che avevo trovato il protagonista». Per il ruolo di Edmond, invece, Munzi ha scelto un attore albanese che in patria è una celebrità: Xhevdet Feti. Anche tutti gli altri attori sono albanesi.
«Questo ha creato tantissimi problemi con i permessi di soggiorno. Abbiamo dovuto interrompere le riprese molte volte» racconta il regista che ha affrontato le difficoltà di questo piccolo e coraggioso film insieme con due giovani produttori, (Cristiano Bottone e Daniele Mazzocca). E che non sia un film qualsiasi lo chiarisce anche il luogo dell’anteprima: Tirana. Perché, per ora, a Mishel Manoku le porte dell’Italia sono sbarrate. Non ha il permesso di soggiorno....
Da Il Venerdì di Repubblica, 22 aprile 2005


di Federica Lamberti Zanardi, 22 aprile 2005