Paolo D'Agostini
La Repubblica
I maltrattamenti sguaiati subiti dalla platea del festival veneziano a inizio settembre indurrebbero a difendere il film di Michele Placido senza riserve dalla maleducazione di un pubblico e di una critica che si sarebbero trovati a loro agio nei giochi gladiatori. Fare il tifo è facile ed è una scorciatoia, ragionare è pratica più faticosa e anche più grigia ma più onesta. Ma "senza riserve" non è possibile perché è vero che Ovunque sei è un film confuso, che i conti tra intenzioni e risultati non tornano.
Appesa all'ispirazione da un suggestivo brano pirandelliano che parla del sentimento del "vedersi vivere" che significa non essere più vivi ma cominciare a morire, e ad una messa in scena affidata ad una rete di coincidenze di sapore fortissimamente kieslowskiano, l'intenzione di Placido era quella di immaginare la possibilità di fermare l'attimo tra la vita e la morte, di mettere un uomo in una situazione limite che lo costringesse a fare fino in fondo i conti con se stesso e con la qualità delle sue relazioni affettive e della sua vita amorosa.
Non funziona, purtroppo, l'agire fantasmatico del protagonista Stefano Accorsi dopo l'incidente che gli è costato la vita non è credibile e soprattutto non si capisce: la sfida non regge alla prova di un linguaggio realistico come quello del cinema è.
Eppure continuiamo a rispettare Placido regista. Uno che, mentre il cinema ha spesso poco da dire anche se lo sa dire in modo luccicante, scommette e inciampa, non si arrende e mira in alto.
Da La Repubblica, 22 ottobre 2004
di Paolo D'Agostini, 22 ottobre 2004