MARE ADENTRO
Prima di avere un valore di denuncia pur fortissimo, ma a cui è sicuramente possibile opporre una razionale visione legale e un altrettanto lucido interrogativo di natura morale, un film come Mare dentro è in grado di stimolare al più alto grado la fantasia dello spettatore e – supponiamo – del regista che l’ha girato. Trattasi di una storia drammatica e il dramma è quello dell’impossibilità alla vita, da cui, a sua volta, discende quello dell’inesprimibilità, per pudore, dei sentimenti, racchiusi in un involucro che non ha sensibilità verso l’esterno. L’altro dramma è dato dal fatto che il protagonista, Ramón Sampedro, che conduce una vita da tetraplegico da 28 anni, deve dipendere per ogni tipo di necessità dagli altri.
Il film è pressoché interamente girato in interni, in una camera, anzi la cinepresa è quasi costantemente incollata al letto dove Ramón è costretto a trascorrere la propria vita, nella vana attesa di ottenere l’autorizzazione legale, se non proprio l’appoggio morale, a quello che lui chiede da sempre, cioè di poter morire.
Lo sostiene in questa sua lotta Julia, un’avvocatessa inglese che, a sua volta, ha la vita minata da infarti cerebrali. Fra i due s’instaura presto un rapporto basato sulla condivisione di uno status di sofferenza che non lascia scampo, tanto da spingere la donna a desiderare di darsi la morte insieme a Ramón, una volta che saranno stati dati alla stampa gli scritti di lui, scoperti da Julia. Lei convince il malato - estraneo e riottoso a dare un valore se non individuale alle sue poesie - alla pubblicazione per smuovere l’opinione pubblica a favore di quelli che lottano per ottenere il diritto all’eutanasia.
Sono i momenti più poetici del film, questi: il regista può, infatti, uscire da quella difficile staticità dovendo tener dietro all’immaginazione di Ramón, che si alza dal letto e abbraccia la donna, oppure vola dalla finestra verso quel mare di cui, a volte, nelle mattine ventose, riesce ad avvertire l’odore, o, ancora, rivive il momento oscuro del suo tuffo nell’acqua che stava ritirandosi provocando, così, la sua triste condizione.
Altri personaggi di rilievo nel film sono l’assistente sociale che organizza l’incontro tra Ramón e Julia; Manuela che, con abnegazione, sacrifica la sua vita per accudire il cognato; Rosa, una giovane donna, vedova con due bambini, che s’innamora di lui e l’aiuta a raggiungere il suo scopo.
Particolarmente indovinata c'è parsa la scelta di Belen Rueda, l’attrice che impersona Julia. Ella, con uno sguardo dolcissimo e un sorriso triste e penetrante, sa interagire, unica, col dolore di Ramón e lo conferma nella sua decisione, offrendogli la speranza di una morte ancora più allettante. Col suo ritrarsi finale, Julia tradisce per poi dimenticare, grazie al suo male che la trasfigura ulteriormente, mentre l’altro rimarrà fermo fino all’ultimo nella sua lucida e calma disperazione.
Importante, ancora, nell’economia del film, è il confronto che interviene fra Ramón e un prete, come lui, tetraplegico: il sacerdote, facendo leva solo sullo schematismo clericale imposto dalla Chiesa, non riuscirà in alcun modo a smuovere l’antagonista dalle sue convinzioni.
Il regista non calca la mano sull’aspetto pubblico delle rivendicazioni del protagonista: vediamo un’unica scena in cui a Ramón, spinto dalle donne che lo sostengono a presentarsi in tribunale per ribadire le sue richieste, non viene nemmeno concesso di parlare, perché ciò comporterebbe un vizio di forma che andrebbe contro la legge costituita. Tutto rimane all’interno, nell’intimo del personaggio e di quei pochi che l’assistono e che sono in grado di cogliere la sua disperazione. C’è un prosciugamento, un progressivo e reciproco abbandono che sfocia nell’atto finale in cui unico testimone della morte di Ramón sarà una telecamera. Non si tratta, si badi, del mezzo tecnico del regista, né essa rappresenta il ripensamento estremo del malato ad uscire dall’intimità della sua morte per farne un oggetto didascalico. È invece l’unica possibilità che egli ha di scagionare le persone che hanno contribuito – ognuno in misura tale da non commettere alcun reato – a preparare la pozione che sta per bere e di rivendicare la sua piena autonomia nel togliersi la vita: il regista Amenàbar ha, d’altronde, riportato sullo schermo una storia realmente accaduta.
Le chiavi di casa di Gianni Amelio è l’altro dei film presenti in concorso a Venezia 61 ad aver trattato il difficile tema dell’invalidità fisica. Se entrambe le pellicole evitano brillantemente il pericolo dell’ostentazione gratuita e sgradevole, quello che le differenzia è che il film spagnolo s' impadronisce con grande maestria di un dramma compiuto che registra con pudore esterno, mentre quello del nostro cineasta si addentra in un altro tutto da scoprire e che cresce ed esplode, momento per momento, nelle mani dei protagonisti.
Infine una notazione particolare per Javier Barden, che a Venezia ha vinto la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile – al film, invece, è stato assegnato il Leone d’argento per la miglior regia. Invecchiato in modo straordinario per affrontare questa parte, l’attore ha in sé quella naturale forza interiore che fa avvicinare Ramón a quello che era prima che si verificasse la sua disgrazia, sapendo così rendere più vivo e vibrante il personaggio da lui interpretato.
Enzo Vignoli,
5 novembre 2004
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