L'odissea dell'immigrato Assane
di Roberto Nepoti La Repubblica
Non è il primo film italiano sugli immigrati Lettere dal Sahara (fuori concorso): però è il primo, a nostra memoria, raccontato dal punto di vista degli immigrati stessi E pensare che a realizzarlo è stato un regista nato a Palermo 83 anni fa, Vittorio De Seta, con quel tipo di linguaggio creato proprio da lui per Banditi a Orgosolo e Diario di un maestro; un linguaggio che non è ne documentario né fiction, ma l'una e l'altra cosa, paragonabile solo a certi film (Moi, un noir) del leggendario Jean Rouch.
Il giovane Assane (Djibril Kébé), senegalese di religione musulmana, è gettato in mare al largo di Lampedusa dai traghettatori della morte, si salva e va in cerca di un'occupazione e di una vita dignitosa. Dopo aver superato privazioni e umiliazioni d'ogni genere (lavoro nero, vita da ambulante senza-casa, attentati razzisti…), risalendo l'Italia da Messina a Firenze, fino a Torino, sembra aver trovato finalmente ciò a cui chiunque avrebbe diritto - il permesso di soggiorno, un lavoro decoroso, degli amici - quando viene picchiato selvaggiamente da un gruppo di balordi, solo per il colore della pelle.
Nella seconda parte del film, Assane torna in Senegal preda di una forte depressione. Sospeso tra due concezioni opposte dell'esistenza, teme di aver perduto radici culturali, fede, identità; sarà il suo antico professore d'università a tendergli una mano per risalire dal baratro.
«Il film è stato girato in modo estemporaneo, improvvisato» ha detto il regista, soffermandosi sulle situazioni in cui ha deciso di "andare a braccio". Il risultato è un senso di eccezionale autenticità, tanto che ti pare di vivere le situazioni in presa diretta, saltando la mediazione della cinepresa; meglio, della telecamera, perché Lettere dal Sahara è girato in digitale. Citando Majakovskij, De Seta dichiara di credere in una "funzione" sociale del cinema e della televisione. E lo dimostra. Al punto che il suo film appare a tratti - nobilmente - didascalico, sposando il realismo delle immagini con la passione della declamazione civile. È un limite? Non lo diremmo. Vero che tutto il bene sta da una parte, tutto il male dall'altro: in Europa il cinismo e la religione del denaro; nel villaggio africano la solidarietà e la condivisione. Vero altresì che ad Assane, in nome della purezza e della fede religiosa, si "passa" tutto: anche quando, isolato e senza speranze, rifiuta l'ospitalità di una gentile connazionale perché la ragazza vive, non sposata, con un italiano.
Però la sincerità del proposito è fuori discussione e il film instaura un inedito tipo di "manicheismo gentile", a fin di bene e di conoscenza: deciso, sostanzialmente, a farci aprire gli occhi su ciò che non conosciamo - o ci ostiniamo a non voler conoscere - degli immigrati che vivono accanto a noi. Intento encomiabile che qui a Venezia, alla proiezione per il pubblico, è stato salutato da dieci minuti di applausi commossi.
Da La Repubblica 1 settembre 2006
di Roberto Nepoti,