La terra dell'abbondanza

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Un film di Wim Wenders. Con Michelle Williams, John Diehl, Richard Edson, Yuri Elvin, Burt Young, Bernard White.
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Titolo originale Land of plenty. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 114 min. - USA 2004. uscita venerdì 10 settembre 2004. MYMONETRO La terra dell'abbondanza * 1/2 - - - valutazione media: 1,78 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Paola Zanuttini

Il Venerdì di Repubblica

La terra dell’abbondanza è il film più politico di Wim Wenders: dice che l’ha voluto girare nella Down Town di Los Angeles, perché è la capitale mondiale della fame. Doveva avere un altro titolo: Rabbia e alienazione in America, poi regista e produzione, che si chiama Indigent (acronimo fortemente programmatico di Independent Digital Entertainment), hanno pensato non fosse di grandissimo richiamo, così hanno scippato quello di una recente ballata di Leonard Cohen, Land of Plenty, appunto, che accompagna le ultime sequenze di questo affresco sull’America povera, paranoica e patriottica del dopo 11 settembre.
Ma La terra dell’abbondanza, è anche uno dei film più wendersiani di Wenders: poetico, struggente, sensibile, dolente, solenne, sonnolento, commovente, ironico, cinefilo, e via con tutti gli aggettivi che qualificano il lavoro del regista tedesco.
Perfettamente in linea anche i personaggi del film, presentato ieri a Venezia e da oggi nei cinema. Paul, interpretato da John Diehl (in un’altra vita era il detective Larry Zito in Miami Vice) è un veterano del Vietnam che sconta nel corpo e nella testa gli effetti dell’esposizione all’Agente rosa, diserbante a base di diossina riversato senza economie dall’aviazione americana sulla foresta indocinese. Drop-out fascista e paranoico, si è autoproclamato funzionario del ministero della Sicurezza interna e persegue la sua guerra privata contro il terrorismo pattugliando Los Angeles a bordo di un vecchio furgone superaccessoriato per le attività di spionaggio. A volte la sua attrezzatura fa cilecca, ma lui registra, fotografa, filma ogni movimento sospetto, interrotto soltanto dal telefonino che si mette a squillare nei momenti più inopportuni. La suoneria è The Star Spangled Banner, l’inno americano, pateticamente di-storto dall’apparecchio: il contrasto fra la grandezza del messaggio e la pochezza del mezzo racconta già qualcosa del protagonista.
Michelle Williams, una di quelle bellezze purissime e fuori dal mucchio predilette da Wenders, non sembra per niente una veterana della televisione, eppure si è fatta le ossa per sei anni nei panni di Jen, la cattivella redenta di Dawson’s Creek. Ma questo è tutto un altro film e lei è Lana, la nipote buonissima, idealista e anche un p0’ sprovveduta che Paul non ricorda di avere. Fervente cristiana, figlia di missionari in Africa, attivista per la pace in Palestina, atterra all’aeroporto e fila subito a prestare il suo aiuto in una mensa dei poveri nel dark side della città degli angeli. Quel dark side miserabile e desolato del Paese che George W. Bush non ama esporre alla tele o sui giornali e che Wenders ha voluto illuminare.
Le visioni del mondo di uno zio e di una nipote Così lontani e così vicini si incontrano e si scontrano, senza farsi troppo male, però, nello sviluppo noir della vicenda. Vittima della guerra chimica prima che diventasse un’ossessione di massa, Pani si convince di aver individuato un terrorista chimico e, in una sorta di goffa detective story con le amarezze dell’Hard boiled, vecchia passione del regista, emerge la denuncia contro il lavaggio del cervello che gli americani sono costretti a subire da tre anni.
«Questo film l’ho girato con la pancia» ammette Wenders, che ha ripreso anche integralmente in digitale, in soli 16 giorni, con telecamere poco più che amatoriali: «Una tecnica che ha consentito un rapporto molto più agile, diretto e intimo con gli attori. Anche loro si sentivano liberi, potevano interrompere una scena e riprendere senza bisogno di ricominciare tutto da capo». Nella poetica wendersiana c’è un punto fermo: «Un ruolo deve sempre contenere la verità della persona che lo interpreta, perché nessuno può recitare una parte che noi sia già latente in lui». Visti i presupposti, la liberazione del set deve essere stata una vera rivoluzione: «Personalmente, credo che oggi più si hanno grandi idee più si ha bisogno del digitale».
Nella sua virata verso il cinema militante, il regista prende gentilmente le distanze da Michael Moore: «Il mio è un film politico, ma non in modo polemico come Fahrenheit 9/11. Anch’io parlo della disonestà, dell’inganno ai danni dell’opinione pubblica, della disinformazione e della manipolazione, ma la mia èuna fiction, non un documentario. Quindi il film si sviluppa su un intrigo e su dei personaggi, non su dei fatti. Però i due protagonisti, assolutamente in buona fede anche su posizioni diversissime, operano una vera presa di coscienza politica che, mi auguro, comunichi l’urgente bisogno di cambiamento, senza alterare l’im-patto emotivo del film».
Sventolano ripetutamente le stelle e strisce sulla Terra dell’abbondanza: Wenders attacca la strumentallzzazione di questo potente simbolo visivo che, a suo dire, rappresenta il meglio e il peggio dell’America: «Dall’11 settembre non si sfugge alla bandiera. Quando giravo L’anima di un uomo in Mississippi, uno dei posti più poveri deI Paese, non si vedeva una casa o una macchina senza bandiera. È nelle regioni dove l’America manca di più le proprie promesse che il sogno americano è più sentito».
Un sogno definitivamente svanito: «È una nozione ottocentesca che, grazie al cinema è sopravvissuta diventando uno dei miti fondamentali del Novecento. Gli ultimi fuochi li abbiamo visti nell’era Clinton», decreta il regista, pronto a denunciare le sue preoccupazioni di europeo che vive e lavora negli Stati Uniti ma attento anche a ribadire l’affetto, mai nascosto peraltro, per il grande Paese e per le idee che difendeva.
E che Land of Pleniy non è un film antiamericano lo si capisce benissimo alla fine, quando zio e nipote percorrono sul loro furgone scassato la più epica (e straclassica) traversata coast to coast: California-New York. Come può un regista diventato famoso con la sua idolatrata Trilogia della strada (Alice nella città, Falso movimento, Nel corso del tempo) non amare il Paese che ha inventato l’on the road?
Da Il Venerdì di Repubblica, 10 settembre 2004


di Paola Zanuttini, 10 settembre 2004

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