Wim Wenders non è un regista qualsiasi, appartiene a quella categoria di cineasti visionari, poetici e sognatori, ma non sempre ha centrato l’ obiettivo e questo, notoriamente, capita anche ai grandi. Nella sua filmografia c’è un nugolo di pellicole ambientate e girate negli Stati Uniti, tra i quali spiccano Paris, Texas e Million dollar Hotel, ai quali è seguito nel 2004 La terra dell’ abbondanza (Land of Plenty), un film incentrato sui fatti dell’ 11 settembre, con attenzione particolare a quel patriottismo nato o rinvigoritosi tra i bianchi americani (specialmente se si tratta di soldati e veterani) durante i mesi e gli anni immediatamente successivi all’ evento. Una storia che vede John Diehl efficacemente calato nella parte di Paul, sergente addetto alla sicurezza nazionale, affiancato dall’ inespressività di Michelle Williams nel ruolo della nipote Lanna, volontaria in una missione per senzatetto.
La narrazione è semplice, meno onirica di quanto Wenders ci abbia abituati in passato, senza virtuosismi, un’ opera dal basso profilo dato ai personaggi, anche quelli secondari che spesso hanno invece donato ai suoi lavori quel tocco in più, un film che scorre lento verso una non soluzione, attraverso piccoli o tragici avvenimenti seguiti (e spiati) attraverso le telecamere ed i microfoni installati sul vecchio e innocuo furgone di Paul, intento a trovare cellule dormienti in giro per la California. Lasciando perdere l’ introspezione dei personaggi, non troppo approfondita, direi che Wenders ha voluto più che altro dire la sua sulle conseguenze dei tragici fatti di quel giorno divenuto storico e di come si sia sviluppata, in tutti gli Stati federali, una fobia preventiva verso l’ arabo, verso lo straniero. Basta sorprendere un ignaro cittadino nullatenente, ma di chiare origini arabe, con delle scatole di borace tra le mani per far scattare l’ allarme su eventuali piste jihadiste e su covi di terroristi intenti a costruire bombe sporche, pronti a fare morti civili in ogni dove e ad ogni quando; basta un ‘Mohammed Atta qualsiasi’ per raggiungere l’ obiettivo. Ma l’ apparenza non ha mai ingannato tanto un popolo come quello statunitense dopo il crollo delle Torri Gemelle, un vortice inarrestabile nel quale sono precipitati milioni di cittadini spaventati dalle armi di distruzioni di massa mai trovate di Saddam, dalla finta boccetta di antrace di Powell, da un cumulo di storie e fatti messi insieme per generare una contrapposizione ideologica tra occidente e mondo arabo che ha avuto come plausibile scopo quello di giustificare nuove colonizzazioni, nuove guerre.
Land of plentynon ha il carisma di pellicole quali La 25ma ora di Spike Lee e non pretende di confrontarsi con Michael Moore, è soltanto un viaggio triste di un uomo solo a bordo di un furgone che lotta contro i demoni derivati dalla guerra del Vietnam cui ha partecipato, contro un’ ansia feroce dovuta a Bin Laden, contro il diverso (un odio che sfiora la xenofobia) e contro quella ossessiva meticolosità che applica nel suo lavoro. Diehl riesce comunque a sostenere, anche se a tratti, lo sguardo e le idee di Wenders; lo stesso non posso
dire per la Williams, assolutamente inappropriata al ruolo, interpretato quasi apaticamente e scegliendo di mostrare un viso ed un’ espressione che provocano quasi irritazione in chi osserva e spera nella svolta che, obiettivamente, non riuscirà a farsi strada, ma non solo per causa sua. Resta, tuttavia, quel senso di smarrimento, trasmesso anche allo spettatore, quando si legge sul volto di Paul tutta la delusione del mondo nel realizzare che quella pista seguita spasmodicamente altro non era che un colossale granchio, una casa abitata da un’ anziana disabile alla ricerca di qualcuno che riuscisse a cambiargli il canale TV (una scena, se vogliamo, ironica e beffarda allo stesso tempo).
La chiosa del film ci mostra il cantiere di Ground Zero ancora agli inizi, mentre Paul e nipote, di nuovo riuniti dopo anni, s’ interrogano sulle proprie certezze e sulle inquietudini che a volte ci vengono imposte e costruite su misura.
Un film che in quella prima sequenza tra belle immagini e ottima musica promette bene, così come l’ idea di base ed anche per tutta la splendida colonna sonora, come consuetudine per il regista tedesco; lasciano però a desiderare lo script e l’ evolversi della storia, con pochi cambi di direzione (quasi assenti) e rari sussulti; così così la fotografia. La morale c’è, scontata, ma c’è e questo assolve il cineasta e consente di non bollare questo lavoro come scarso, sia per quanto accennato ma anche per le belle riprese dei paesaggi circostanti Los Angeles e perché, soprattutto, quel senso di smarrimento provato dal protagonista è lo stesso che, in un modo o nell’ altro, abbiamo provato tutti in quei mesi, anche se in certi casi è risultato difficile ammetterlo, anche nei confronti di noi stessi.
Voto: 6+
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