La samaritana

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Un film di Kim Ki-Duk. Con Uhl Lee, Ji-min Kwak, Min-jung Seo, Kwon Hyun-Min, Oh Young.
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Titolo originale Samaria. Drammatico, durata 95 min. - Corea del sud 2004. uscita venerdì 17 giugno 2005. MYMONETRO La samaritana * * * - - valutazione media: 3,37 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

La sonata dell’amore che salva Valutazione 3 stelle su cinque

di Andrea Alesci


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martedì 3 marzo 2015

Tre volte lo schermo si fa nero e vi biancheggiano altrettante parole bianche: Vasumitra, Samaria, Sonata. Vasumitra, il nome che la giovane Jae-yeong (Seo Min-jung) s’impone da quando comincia a prostituirsi e che ricorda quello di un grande maestro buddista. Samaria, non solo regione storica della Palestina ma vero e proprio spazio d’azione di Yeo-jin (Kwak Ji-min). Sonata, compendio finale in cui il filo narrativo è tessuto dal padre di Yeo-jin (Lee Uhl), agente della polizia locale.
 
Tre parole precise a costruire l’opera (Orso d’argento 2004), che come in una sonata del XVI secolo ha una sua esposizione (Vasumitra), uno sviluppo tematico (Samaria), una ripresa (Sonata).
 
Il cineasta sudcoreano Kim Ki-duk gira con discrezione ma in maniera netta. La musica sfrutta appieno l’armonia pacificatrice del pianoforte, balsamo per le battute di dialogo spesso usate a tinte forti. Tutto è talmente ben orchestrato che la brutalità, sotterranea alla storia, invece di emergere in tutta la sua parossistica disperazione, rimane presente come luce soffusa per mostrarsi in qualche acceso bagliore. E se anche le manifestazioni di violenza cui assistiamo grondano sangue, è un sanguinare che emerge solo in un secondo momento, attutito da una specie di prima visione “a occhi chiusi”.
 
Tutto fa perno sul silenzio, che Kim Ki-duk sa sviluppare in un modo vellutato: mostrare nascondendo. Come accade per il suicidio della giovane Vasumitra e per la morte di uno dei “clienti/peccatori”, brutalmente gettato giù da un balcone dal padre di Yeo-jin.
 
La 13enne Jae-yeong/Vasumitra (nome di una prostituta indiana che convertiva al buddismo i propri clienti) fa sesso, ma per lei è quasi un gioco (“Il tempo non conta, per me è divertente quello che faccio”).
 
Le due ragazze sono avvinte da un’intima amicizia, che il regista accenna voyeuristicamente nelle scene di dolce complicità nei bagni pubblici, con Yeo-jin che lava amorevolmente la compagna, quasi a smacchiarla dello sporco fardello indossato ogni volta.
 
E al gioco amoroso delle due ragazzine si accosta come una costante la dimensione religiosa. Tutto il film è percorso da simboli sacrali: dipinti e immaginette di Gesù, le parabole raccontate dal padre alla figlia, la tomba della madre (visitata solo alla fine ma sempre presente con la sua assenza), crocifissi (come emblema di gioco e redenzione).
 
La dimensione sacrale diviene salvifica quando Yeo-jin, visto per l’ultima volta il viso sorridente (anche da morta) di Jae-jeong, decide di redimerla e di redimersi: si trasforma in Jae-jeong e si prostituisce presso gli stessi clienti che erano stati con l’amica, restituendo gli sporchi soldi ai legittimi “proprietari/peccatori”e declinando una misericordia che richiama naturalmente la parabola del buon Samaritano.
 
Infine, il percorso della sonata approda al suo momento finale, si completa. Il padre di Yeo-jin si accolla il peso del peccato (l'omicidio compiuto), mentre alla figlia viene restituito (con il “gioco” della guida dell’auto) quella dimensione di divertimento che appartiene alla sua giovane età. Yeo-jin guida l’auto barcollando, insegue la jeep bianca con a bordo il padre, lo rincorre per gioco sulla strada della redenzione, ma si impantana nel fango. L’automobile ruggisce, fumo bianco dal tubo di scappamento e zoom out a dissolvere ogni legame umano, a chiudere un film intenso che interseca l’amore-divertimento di Jae-jeong, l’amore misericordioso di Yeo-jin, l’amore redentore del padre.

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