Il gusto dell'anguria

Roberto Nepoti

Comincia con una scena di coito per interposta anguria, finisce con una fellatio. Non si pensi però, di andare a vedere un film basato sul principio del piacere, un oggetto eccitante per lo sguardo del voyeur d’immagini: quello di Tsai Ming-Liang è cinema di un pessimismo integrale, che fa della disperazione uno stile. Inutile volerne mettere insieme i pezzi in un disegno coerente, perché Il gusto dell’anguria è costruito su una serie d’inquadrature lunghe, intervallate da “numeri” musicali con balletti e canzoni, ma ambientati in squallidi capannoni e cessi pubblici.
Qualcuno, forse, ricorderà Che ora è laggiù?, realizzato dal regista quattro anni fa. Un venditore d’orologi e una ragazza s’incontravano e subito si perdevano. Ora il giovane è diventato un pornoattore, la ragazza è tornata dai suoi viaggi: si rivedono, forse si amano; ma non riescono a fare l’amore. Tutto qui. Il discorso del film è altrove, oltre la coerenza narrativa. Nella coerenza — agghiacciante — di un mondo dove tutto è merce, in cui dominano il vuoto esistenziale e la solitudine sessuale mentre i sentimenti diventano irriconoscibili anche da chi li prova. Il regista cinese possiede uno stralunato senso dello humour, nero e repulsivamente affascinante. Vi aggiunge un istinto di provocazione, non destinato a piacere a tutti.
Da La Repubblica, 25 novembre 2005


di Roberto Nepoti, 25 novembre 2005