Natalia Aspesi
La Repubblica
Come tutti i filmoni americani di successo, Fahrenheit 9/11 entusiasma, orrifica, diverte, spaventa, commuove, irrita, invita al singhiozzo, alla risata, all’indignazione: ha per protagonista uno raccontato come un buffone, Bush, con tutta la sua corte di ricchi spietati e di strateghi sciocchi, come antagonista un soave angelo vendicatore, Moore stesso, con la sua folla di vittime, d’eroi, d’ingannati, di poveri, di sfruttati.
A un ritmo sfrenato e irresistibile, è esagerato e implacabile, è come un giro di giostra, che dura 122 minuti, da cui si scende stremati. Increduli, angosciati, almeno perplessi, per «questo attacco incendiario e malignamente divertente all’amministrazione Bush, un vortice d’accuse politiche, d’implicazioni sinistre e di derisione», come scrive il New Yorker.
Se Bush era antipatico prima, dopo essere stati martellati nel film dal suo sguardo vuoto e dall’accumulo di nefandezze documentate (elezione rubata, strette di mano con Taliban, Sauditi potentissimi, famiglia bin Laden, i cui 25 membri che erano negli Usa, l’11 settembre2001, furono messi su un aereo prima che l’Fbi potesse interrogarli), sarà detestato con tutta l’anima. Se Bush era apprezzato prima, dopo averlo visto nel film giocare impeccabilmente a golf, («Guardate che tiro», dice orgoglioso ai giomalisti, subito dopo aver annunciato loro guerra totale al terrorismo), rincorrere i suoi cagnolini e sorridere tra le truppe americane, la fede in lui sarà solo superficialmente scalfita, se non addirittura rafforzata. Come perla bandana del nostro presidente, che come sempre ha diviso l’Italia in due, gli scandalizzati e i rapiti.
incompleto, impreciso, irritante, forse fazioso ma mai bugiardo, Fahrenheit 9/11, Palma d Oro a Cannes data in un delirio d’applausi da una giuria presieduta da un americano, e composta da altri 3 americani, un cinese che vive in America e 3 europei, esaltato e criticato, è stato soprattutto accusato di piacere ai francesi in funzione antiaméricana: però nei cinema americani, distribuito da luglio in 868 sale, ha incassato nel primo fine settimana 22 milioni di dollari, come un vero e proprio blockbuster. Con conseguenze politiche, cioè uno spostamento di voti alle prossime elezioni di novembre (in ottobre il film esce in Dvd)? Ognuno dice la sua, no e sì e forse, senza tener conto che se Moore è acerrimo nemicö di Bush, non è che uno sbuffante e molto tiepido osservatore di Kerry (alle ultime elezioni aveva votato Nader). Al Festival, il presidente Quentin Tarantino, che si dichiara apolitico, aveva detto, «abbiamo premiato Fahrenheit 9/11 non per ragioni politiche ma perché è un bel film». Altri l’hanno trovato orrendo, sempre come film, forse inseguendo il mito del documentario serio, approfondito, che nulla tralascia, anche se ideologico, quel tipo di documentario che proprio perché alto, sublime, viene sfuggito come la peste dal distributori e dal.pubblico medio, e al massimo lo passano in tv d’estate verso le 3 del mattino.
Michael Moore per sua fortuna, (forse anche nostra), non è Ivens, Renals, o Jareclci (autore del recente molto ammirato Capturing the Friedmans), autori di documentari di culto visti da piccoli manipoli di appassionati: grande comunicatore, accusatore entusiasta, giullare arrabbiato, india-volato pettegolo, burlone sarcastico, polemista satirico, ingombrante protagonista, occupai suoi film con i suoi l3ochilielasuaber-retta da baseball e seraficamente infastidisce i cattivi e compiange i buoni. Qui mostra gli spietati giovani reclutatori di soldati che s’aggirano nei quartieri poveri della sua città, Flint nel Michigan, promettendo al disoccupati, quasi sempre neri, danaro e persino fama canora e televisiva se entreranno nell’esercito per andare “a portare la democrazia“. E subito dopo la signora Lila Upscomb, sempre di Flint, legge l’ultima lettera del figlio prima di essere ucciso in Iraq, in cui il ragazzo si chiede disperato cosa ci sta a fare in quel luogo terrorizzante e insanguinato. Poi la signora si piazza davanti alla Casa Bianca per confrontare il suo immenso, imbarazzante e inascoltato dolore con la muta indifferenza del potere politico. Flint è molto importante per Moore. In questo che fu un paradiso industriale, c’è nato, 50 anni fa, da una famiglia operaia cattolica, ne ha vissuto la degradazione quando la General Motors ha chiuso i suoi stabilimenti generando una disoccupazione di massa tuttora senza vie d’uscita. Gli è rimasta da quell’esperienza mortificante e dolorosa, una vocazione più proletaria che no global, la nostalgia di una classe e di una ideologia che si sono ormai estinte ma che lui ti-trova con solidarietà e rabbia nelle masse degli esclusi e degli invisibili, cancellati dal grandi poteri, dalle lobby finanziarie e politiche, dal sistema capitalista americano.
Di questi due mondi antagonisti ha la fissazione, li ha descritti nei suoi precedenti documentari, tra cui Roger and me, amaro e divertente tentativo di avvicinare il patron della General Motors dopo la chiusura della fabbrica, e il premio Oscar Bowling for Columbine che, distribuito in Italia in 13 sale nel 2002, ha incassato in pochi mesi la somma, straordinaria per un documentario, di 600 mila euro. Anche qui c’erano i cattivi, la lobby delle armi e il loro portavoce, Chaltron Heston, e i buoni, i bambini, i ragazzi, ammazzati dai loro coetanei che le armi se le possono ordinare via Internet o comprare al supermercato.
Fahrenheit 9/11 di cui l’informazione ci martella da mesi, verrà distribuito in Italia da venerdì 27 agosto, questa volta in 280 cinema. Si storcerà il naso, se ne scandaglieranno i vuoti, se ne parlerà di come avrebbe dovuto essere (e infatti sarebbe stato un altro film, non questo). Ma per i meno informati o i più semplici comuni spettatori, sarà un grande agghiacciante divertimento, come un kolossal di esilarante paura: non di fantasy purtroppo, ma vero e per questo molto inquietante.
Da La Repubblica, 25 agosto 2004
di Natalia Aspesi, 25 agosto 2004