Roberto Nepoti
La Repubblica
Da dieci anni Charley Waite e il suo mentore Boss Spearman guidano sparute mandrie di bovini attraverso il West. Un giorno bivaccano nei pressi di un villaggio, dove un tale Baxter spadroneggia da tiranno. Il tipaccio li provoca, causando la morte di un apprendista. Non sa che Charley, prima di diventare cowboy, è stato un imbattibile pistolero.
Una delle tracce narrative archetipiche del western (l'eroe dall'oscuro passato, la vendetta, il regolamento di conti...) esce dalla naftalina grazie a Kevin Costner, il quale spiana tutta l'artiglieria di quello che un tempo si chiamava "il cinema americano per eccellenza", e che da molti anni ha perduto valore commerciale.
Kevin ha il merito di farlo con umiltà e rispetto, ma ha anche l'orgoglio di guardare ai più grandi registi del genere, John Ford e Howard Hawks. Certo, i loro film hanno raccontato la stessa storia molti anni fa, e meglio; ciò non toglie che Terra di confine sia un bel western, il migliore visto dai tempi degli Spietati di Clint Eastwood, e che si meriti il successo commerciale ottenuto negli Usa.
Il regista-protagonista ha capito l'essenziale della mitologia dell'Ovest americano: il passaggio traumatico dall'anarchia alla legge, la sfida tra il capitalismo senza scrupoli e la piccola impresa (bovina), la riflessione sulla violenza, i suoi motivi e le conseguenze che trascina con sé.
Galoppando coraggiosamente accanto a un mito lungamente rimosso, Costner dimostra di esserne il vero erede, un autentico osso duro. All'opposto della generazione dei cineasti Mtv, quella che decide del successo di un film nel primo weekend, lui si prende il tempo d'installare i personaggi, di dettagliarne i caratteri e la vita quotidiana prima di entrare nel pieno dell'azione. Lo stile di regia appartiene a un'altra epoca: amore per la bella immagine (soprattutto quando fotografa i grandi spazi), inquadrature lunghe, cura estrema del montaggio. Secondo la lezione di Ford, anche per lui c'è un solo punto in cui si possa sistemare la macchina da presa perché la storia sia raccontata nel migliore dei modi e l'emozione "passi" allo spettatore.
Analogamente al collega Eastwood, Kevin sfiora talvolta il rischio della magniloquenza, che potrebbe tradursi in pesantezza; però riesce sempre a evitarlo di misura. Nella parte dell'eroe ossessionato dal passato e in cerca di redenzione, è sobrio e credibile; anche quando scopre di potersi ancora innamorare di un'affascinante vecchia ragazza come Annette Bening e di riuscire a progettare un avvenire a due. Come Boss, quel maestro di classe che è Robert Duvall trova uno dei ruoli migliori di una lunga carriera.
Da La Repubblica, 6 marzo 2004
di Roberto Nepoti, 6 marzo 2004