Nicotina - La vita senza filtro

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Un film di Hugo Rodríguez. Con Diego Luna, Marta Belaustegui, Lucas Crespi, Jesús Ochoa, Rafael Inclán.
continua»
Titolo originale Nicotina. Hard boiled, durata 90 min. - Messico, Argentina, Spagna 2003. uscita venerdì 21 gennaio 2005.
   
   
   

Marco Cicala

Il Venerdì di Repubblica

Ormai è inconfutabile che il novanta per cento dei decessi per tumore al polmone è dovuto alla sigaretta», Umberto Veronesi, oncologo ed ex ministro della Sanità.
«Mi chiamano il clandestino/sono un pericolo per la legge... fuggire è il mio destino per ingannare la legge». Oggi, i versi di Manu Chao sugli immigrati irregolari potrebbero applicarsi anche a un’altra moltitudine: il popolo dei fumatori (ancora quattordici milioni, in Italia, ma in flessione: mai così «pochi» dal 1957). Perché da lunedì scorso, con l’entrata in vigore della legge antifumo del ministro Sirchia che ha bandito la sigaretta dai locali pubblici, la vita del tabagista è entrata un po’ di più nella clandestinità. Obbligata a riscriversi e, in qualche modo, a reinventarsi. Ma mentre, da Montecitorio alla Confcommercio, non si sono ancora spente le polemiche sulle nuove norme, qualcuno accende un’altra miccia. Al cinema.
Nicotina, il film dell’argentino Hugo Rodriguez (nelle sale italiane dal 21 gennaio) ha già fatto parecchio rumore in America Latina. Potrebbe suscitarne anche da noi. Visto il battage promozionale tutto all’insegna della provocazione.
Per l’anteprima del film, in coincidenza con l’entrata in vigore delle misure di Sirchia, alcune multisale si sono spinte fino ad annunciare biglietti gratis per i fumatori che presentassero regolare pacchetto di sigarette alla cassa. La prima iniziativa a favore dei fumatori da quando, nel 1975, fu proibito di fumare in sala.
Eppure, Nicotina non è propriamente un’apologia del libero fumo. Ma una «tarantinata» divertente e a tratti un po’ scontata, una sanguinaria commedia degli equivoci, un noir «tutto in una notte» in cui hacker, mafia russa e mal-messi bulli latinos si contendono una fantomatica partita di diamanti. Tra molto piombo, molta emoglobina ma pure un’infinità di mozziconi.
«Sono l’unico vero piacere in questa porca esistenza» dice un gangster al compare non-fumatore, cercando di convincerlo che, nella vita, il vero pericolo non è il tabacco ma il caso, le coincidenze o, detto più terra terra, la sfiga. Il destino genetico scritto nelle cellule o quello tout court. Punti di vista.
E però le variopinte disquisizioni su «fumo sì/fumo no» che punteggiano Nicotina, confermano, se non altro, un dato di fatto: che (anche) al cinema, la sigaretta ha definitivamente perduto la sua innocenza. A cominciare, evidentemente, dai prodotti made in Usa. Considerato il clima di «maccartismo» no-smoke imperante negli States, inconcepibile, oggigiorno, che, in un filmone hollywoodiano, un divo si accenda una sigaretta con la nonchalance con cui potevano farlo un Humphrey Bogart o un James Dean. Sullo schermo, ormai, il fumo è quasi sempre problematico: stravaganza, vizio residuo per intellettuali nevrotici e artistoidi newyorkesi, oppure «droga» sociale in cui vanno a rifugiarsi grassi e tossicolosi esponenti della working class, nelle pause d’un lavoro precario e alienante.
La nicotina è, insomma, sinonimo di marginalità. «Mentre nel cinema Usa tra gli anni Venti e Cinquanta, rappresentava una forma di socializzazione. E svolgeva una doppia funzione: imponeva le star maschili come veri “duri” e le donne come ragazze emancipate. Allo stesso tempo, permetteva l’identificazione con il pubblico popolare, che consumava massiccia-mente sigarette perché meno care di sigari e pipe» spiega Vanna Lovato, autrice, con Francesco Netto, di Fumo negli occhi (L’Epos edizioni, pp. 164, euro 60), uno dei pochi studi disponibili in italiano che, dal cinema alla musica pop, esplorino il tabacco come metafora psicologica, erotica e sociale.
E la sigaretta nel cinema europeo? È una storia ancora tutta da scrivere. Ma, per esempio, a molti hanno cambiato la vita quei film di JeanLuc Godard in cui, nei primi anni Sessanta la trasognata Anna Karina, la «Madonna» della Nouvelle Vague, oziava nei bistrot parigini carbonizzando un numero impressionante di Gitanes. Inconfondibili: tozze e rotonde come cartucce. Era il romanticismo libertario degli arrabbiati Sixties. Ben presto, tanto al di qua che al di là dell’Oceano, il cinema radicale avrebbe difeso il fumo di sostanze meno lecite e più difficilmente reperibili del tabacco.
Sembra passato un secolo.
Specie di questi tempi. Tempi in cui, nel pieno del fumus persecutionis, qualcuno propone non solo di abolire le sigarette dai nuovi film, ma di censurarle addirittura nei grandi classici del passato. Il bocchino glamour di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany come i mitici pacchetti di Fatima dei detective hard boiled. E vuoi vedere che tra qualche anno, nella crociata culturale contro le nocività, non ci si batterà pure per depennare i bicchieri di whisky da Casablanca o le vecchie automobili, di certo non catalitiche, del Sorpasso o di Bullit (con Steve McQueen nel più memorabile inseguimento della storia del cinema).
C’è solo da sperare che le sacrosante ragioni dei difensori della salute pubblica (vedi la «filosofia» del professor Veronesi, sintetizzata nel distico) non vadano ad allearsi con la demenza censoria dei khomeinisti anti-tabacco. Intanto, l’altra America cinematografica, quella dei piccoli film a basso budget, seguita a fumare in barba alle isterie moraliste. «Nel cosiddetto cinema indipendente, le sigarette continuano a rappresentare un forte elemento espressivo» ricorda Vanna Lovato. Basti pensare a Coffee and cigarettes (2003), dove Jim Jarmusch mette a un tavolo di bar Tom Waits e Iggy Pop a fumare, bevendo caffè e discettando sugli argomenti più astrusi. Per non parlare di Smoke e Blue in the Pace, i due film di Wayne Wang (del 1995, entrambi sceneggiati da Paul Auster), elegiaco omaggio al fumo come antico piacere conviviale e, perché no, come civiltà.
Chissà se Girolamo Sirchia li avrà visti e, nel caso, che coca ne pensa.
Da Il Venerdì di Repubblica 20 gennaio 2005


di Marco Cicala,

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