Natalia Aspesi
La Repubblica
Luther è un bel filmone di avventura, se non addirittura di cappa e spada, il cui eroe vittorioso è Martin Lutero, fondatore della religione protestante, che, avendo l’alta figura, il nasino e gli occhioni neri di Joseph Fiennes (ex Shakespeare in love), non assomiglia al ritratto, torvo e inelegante, che fece di lui Cranach nel 1529; proprio quando, spronati dallo scomunicato predicatore, i principi germanici si ribellarono all’imperatore Carlo V, dall’aria, nel film, un po’effeminata e con antipatici berretti piumati.
Arriva quasi come una risposta alla Passione di Mel Gibson, con cui fortunatamente non ha nulla a che fare: non vuole cioè far piangere i buoni cristiani né compiacere i sadici, e infatti non ha per ora compiuto miracoli e conversioni, né si sa se entrerà nelle classifiche dei film per moltitudini; finanziato dalla chiesa luterana americana (50 milioni di dollari), racconta, diciamo così, il rovescio della medaglia: e il cattivo massimo, a parte Satana che tenta Lutero (senza però manifestarsi come la Celentano al Gesù gibsoniano), è il Papa (il grassoccio Uwe Ochsenknecht), quel Leone X figlio di Lorenzo de Medici che per erigere la nuova basilica di San Pietro, ingigantì il già prospero mercato delle indulgenze. Per la folla di persone che sanno poco a nulla dl Lutero, il film, probabilmente ricco di inesattezze storiche, è certo, dal punto di vista religioso, abbastanza convincente: come resistere alle parole infuocate di questo affascinante teologo, elegantissimo nel suo inappuntabile saio, dapprima un po’avvilito dalla tonsura, poi, una volta diventato il cavalier Giorgio e dichiarato eretico, vestito dl velluto come un menestrello, i capelli cresciuti, la barbetta malandrina, i baci alla ex suora Katerina von Bara? Il giovane Lutero inviato a Roma, a piedi, dai suo convento, scopre che la città è «una torbida fogna, un bordello per il clero» (frati che contrattano con meretrici) e che il clero in cambio di una moneta prometta a lui e alla folla di straccioni, monchi, zoppi, ciechi e altro che salgono in ginocchio le scalinate delle basiliche, di sottrarre il nonno o lo zio alle fiamme dell’inferno per portarlo in Paradiso. Ritornato in Sassonia, Lutero, furibondo, sia all’università dove studia, che nelle chiese, dove predica, comincia a tuonare per il ritorno alla Chiesa antica, alla parola dl Dio, alle Scritture: e scrive le famose 95 tesi che vengono stampate e diffuse. Vescovi cattolici tedeschi addobbati di broccato cremisi si preoccupano, inviati del Papa con redingote di raso lo minacciano, ma il folto popolo miserando e sporchissimo lo adora, anche troppo, come si vedrà dopo 80 minuti di film (che ne dura 120). C’è, meravigliosamente interpretato da Peter Ustinov al suo ultimo film (è morto poco dopo) Federico di Sassonia, il principe che lo protesse contro l’imperatore e il Papa: furbo e cauto come fosse Poirot, senza baffi e molto velluto attorno, Federico è affascinato dall’intelligenza di quest’eroe dell’anima, che tuona contro il potere temporale della Chiesa cattolica e promette la salvezza non pagando un obolo ma amando il prossimo.
Dialoghi interessanti come duelli con giovani vescovi sexy e cattivi, (Jonathan Firth) vecchie
inquieti (Mathieu Carrière) e con padri spirituali un po’innamorati (Bruno Ganz). Come fosse tornato Shakespeare (in love), anche come Lutero, Fiennes, scampato a un tentativo di farlo fuori, si mette a scrivere in camiciola, nascosto dal buon Federico: e compie il gesto più eversivo possibile allora, traduce in tedesco il nuovo testamento affinché finalmente diventi accessibile a tutti (quelli che allora sapevano leggere).
Intanto però, mentre lui al caldo e ben protetto si dedica all’immane compito, con vocabolari greci e tedeschi, fuori un inferno: il popolo, in suo nome, guidato dal suo seguace Carlstadt, perde la testa e il film si riempie di incendi, statue della madonna distrutte, vetrate di chiese fracassate, frati sgozzati (come in Elisabetta. Subito dopo un mare di cadaveri, questa volta di contadini (il film dice 100 mila), ingrigisce tra le rovine: per non rovinarci l’eroe, non viene spiegato chiaramente che fu Lutero a incoraggiare i principi tedeschi a restaurare l’ordine, sia pure con una carneficina.
Lutero in camicione bianco a letto con la sposa Katerina (Gaire Cox, legnosa) ci nega affettuosità disdicevoli per un frate sia pure eretico ed è molto commedia americana che lei si infuribondisca quando lui la pianta sui più bello per accorrere dove un devoto fraticello conquistato alla Bibbia in tedesco sta bruciando sul rogo. Teatrale, prevedibile ma efficace il momento in cui davanti all’imperatore arrabbiatissimo (però intanto si è preso l’Italia e ha saccheggiato Roma e il Vaticano, dove Leone X è già morto da un pezzo) chiede ai principi tedeschi di rinunciare all’eresia, a Lutero: e già spronati alla resistenza dall’eroe religioso, i vecchi principi, ad uno aduno, si inchinano davanti all’imperatore dicendo solennemente, «mi farò decapitare piuttosto che mettere al bando la nuova Bibbia». Finale Western anni 60: all’orizzonte appaiono cavalieri armati, Lutero e Katerina, credendoli inviati cattivi dell’Imperatore, stanno per dirsi addio: ma come si sa, Lutero, o meglio i principi tedeschi si erano assicurati l’indipendenza religiosa e politica e il fondatore della religione luterana visse sino al 1546, mettendo al mondo sei figli.
Luther, e chissà perché nella versione italiana non è stato intitolato Lutero, è un film che non susciterà le esaltazioni né i rifiuti del film cattolico (integralista) di Gibson, perché pur con qualche cinefantasia indispensabile, parla di fede con una convinzione che in tanti non hanno percepito in Passion.
Da La Repubblica, 23 aprile 2004
di Natalia Aspesi, 23 aprile 2004