Sweet Sixteen

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Un film di Ken Loach. Con Michelle Abercrombie, Martin Compston, William Ruane, Annmarie Fulton Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 106 min. - Gran Bretagna 2002. - Bim Distribuzione MYMONETRO Sweet Sixteen * * * - - valutazione media: 3,13 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Cronaca di un tenero rapporto madre-figlio. Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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giovedì 2 novembre 2017

SWEET SIXTEEN (UK/GERM/SP, 2002) diretto da KEN LOACH. Interpretato da MARTIN COMPSTON, MICHELLE COULTER, ANNAMARIE FULTON, WILLIAM RUANE, GARY MCCORMACK, TOM MCKEEK

Liam vive nella città costiera di Greenock, una delle zone meno favorevoli della Scozia, in specie dopo il decennio severissimo che ha visto al governo Margaret Thatcher. Il ragazzo ha quindici anni e ne compirà sedici proprio il giorno che sua madre Jean, tossicodipendente, uscirà di prigione. Liam desidererebbe che finalmente le cose girassero per il verso giusto, per lui, sua madre e la sorella, dato che col padre e il nonno i rapporti sono tutt’altro che rosei, e dunque l’adolescente sogna una famiglia che non ha mai avuto. Ma prima di tutto urge raggranellare denaro, il che non è un’impresa facile, per un ragazzo che è sempre senza il becco d’un quattrino. Ecco qui che Liam, insieme all’inseparabile amico Flipper, progetta programmi insani che lo cacciano in un mare di guai, passando dal commercio ambulante di sigarette allo spaccio di eroina nel tentativo disperato, ma pur sempre imperterrito, di procurarsi una somma sufficiente per comprare a Jean una casa confortevole quando verrà scarcerata in corrispondenza del suo sedicesimo compleanno. Quarto film di Loach scritto da Paul Laverty e secondo con ambientazione scozzese dopo il fulminante e commovente My Name Is Joe (1998). La vicenda condiziona pesantemente i personaggi, e ha il torto di lasciare la dimensione sociopolitica sullo sfondo, la quale avrebbe invece meritato maggiore attenzione e un approfondimento più appropriato. Troppo spazio viene quindi donato al rapporto tragico ed edipico fra Liam e sua madre, amore incondizionato che gli fa trascurare l’amicizia col fedele Flipper e l’affetto della sorella Chantelle, la quale si preoccupa di frenare ogni suo singolo impulso autodistruttivo. Come documento sociologico, al contrario, è perfetto: descrizione precisa e puntigliosa di una microcriminalità appena sfiorata e di un quartiere abitativo in cui l’arte di arrangiarsi è l’unico sistema per sbarcare il lunario, raccontata con dovizia di preziosi particolari e senza la ricerca, che per altro avrebbe inficiato la sua verosimiglianza, di manicheismi, forzature o esagerazioni. La storia appare dunque fortemente realistica e trova la sua forza, la sua linfa vitale nella costituzione ellittica del racconto, nell’analisi psicologica e nel regista che dirige con la sua consueta maestria pacata gli interpreti, tutti attori non professionisti eccettuato McCormack, al quale è stato affidato il ruolo di Stan, il boy-friend di Jean. La carta vincente è in assoluto il suo protagonista, l’allora 17enne M. Compston: impulsivo, istintivo, curioso, imprudente, avventato e spregiudicato, è un abitante di un quartiere povero e degradato in piena regola, ma senza la cattiveria primigenia o il cinismo innato del criminale che fa questo lavoro per vocazione, perché Liam non è un individuo sadico o perverso: si comporta e ragiona sempre in funzione del raggiungimento di un obiettivo, anche a costo di infrangere le leggi e scavalcare i regolamenti di cui s’è sempre infischiato, e qui appare un’ultima, ma doverosa, nota dolente della trama: il papà e il nonno di Liam sono descritti come poco più che due uomini violenti e stupidi, capaci non di educare il figlio e il nipote, ma soltanto di sgridarlo aspramente per le sue bravate e per come lui reagisce con corbellature ai loro metodi draconici. L’edizione originale è parlata nel dialetto autoctono con sottotitoli in inglese. Se non altro, è l’ennesima rappresentazione che Loach fa della quotidiana guerra che ogni uomo, donna, vecchio, bambino o ragazzo conduce per salvarsi la vita e fare del bene a chi bene gli vuole senza distinzioni di sorta, combattendo ostacoli non insormontabili, ma comunque duri a cedere. Loachiano al 100%, comunque, coi suoi pochi difetti e i suoi numerosi pregi, e fra questi ultimi non va dimenticata l’attenzione che Loach pone alla mancanza di un finale positivo allo scopo di narrare una morale significativa: come già aveva fatto in precedenza con la vita dei muratori in Riff Raff (1991) e quella degli operai della ferrovia in Paul, Mick e gli altri (2001), Loach lancia un messaggio di speranza schivando con scaltra abilità il buonismo e preferendogli l’educazione dello spettatore, il che, oltre a non essere da tutti i registi (i bravi registi), offre anche al pubblico uno o più spunti per ragionare sulle questioni sociali tuttora irrisolte e i problemi atavici che attanagliano ancora numerose persone nel mondo. Ken parla sempre a cuore aperto del suo Regno Unito, ma il discorso è applicabile anche a tutti li altri paesi economicamente sviluppati che nascondono però zone oscure in cui povertà e miseria dilagano senza che nessuno si prenda la briga di porvi un sostanzioso e debito rimedio. Premio al Festival di Cannes per la sceneggiatura, come detto scritta da un P. Laverty in gran forma che sa creare dialoghi davvero scoppiettanti in certi momenti e capaci di commuovere e lasciare a bocca aperta per lo stupore in altri. In Gran Bretagna la pellicola è uscita col divieto ai minori di diciotto anni, cosa che ha scatenato dure polemiche, e giustamente: la violenza (poca) verbale e fisica che si nota nella proiezione non è mai fine a sé stessa come in uno spaghetti-western, ma finalizzata bensì a descrivere un contesto sociale malandato e scadente, o meglio, sulla via del degrado ambientale più deplorevole, col piglio lucido di uno che sa di cosa sta parlando, di un autore navigato ed esperto che conosce parola per parola il libro che espone a chi guarda la sua opera audiovisiva, evitando di dimenticare la tensione drammatica (anzi, aizzandola nei momenti propizi senza mai sbagliare un colpo) e infierendo una sciabolata all’indifferenza della società benestante nei confronti della vita di stenti e soldi ottenuti con immane fatica che conducono le persone condannate da un destino inclemente a campare così, ricorrendo giocoforza all’abbandono dell’onestà e al rischiare il tutto per tutto pur di non finire strangolati da un sistema che è poco meno che una legge della giungla, quasi come se il più forte mangiasse il più ebole. Sweet Sixteen, per quanto sia di un’abbondante spanna al di sotto di film come Il vento che accarezza l’erba (2006) o il fantastico, recente Jimmy’s Hall (2015), rimane comunque uno dei punti cardine della filmografia di Loach nel primo decennio del nuovo millennio, uno dei suoi film meglio riusciti e più felicemente azzeccati, grazie anche alla tristezza e malinconia di fondo che evitano accuratamente di tramutarsi in resa o in un moto che spinga verso di essa.

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