Sullo sfondo della valle del Douro, significativamente vista da un finestrino del treno e dell’ amata Oporto come nell’andirvieni dei sentimenti, delle situazioni e delle trame nascoste del testo, il grande cineasta portoghese trae dal romanzo di Augustina Bessa Luis, un film con gran parte degli stilemi del dramma borghese, pur altamente stilizzato e dai contenuti a tratti sfuggenti (anche troppo). I personaggi si muovono quasi come pedine nei dialoghi asettici e clinici, nelle filosofie snocciolate in un film come ci si aspetta in De Oliveira essere antinarrativo, anticinematografico (anche troppo) , fondato più sulla parola che sulla rappresentazione cinematografica, un film molto letterario e più teatrale che cinematografico, scenografie degli interni di una accurata valenza pittorica nella loro raffinatezza e fissità. Il Douro e Oporto ne sono le quinte teatrali, la trama si svolge sugli intrighi sentimentali e di potere di una ricca famiglia di proprietari terrieri con alcune concessioni al surreale (la scena finale dell’incendio della discoteca) ed il conturbante e prominente ruolo di quello che appare infine il deus ex machina dei personaggi: quella Camilla che chiude il film con un ambiguo sorriso che sembra dirci ancora che niente è come sembra.
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