Roberto Nepoti
La Repubblica
Doppiato il capo della settantina, Claude Chabrol è entrato in una nuova fase di giovinezza artistica: la terza, dopo la "nouvelle vague" e i grandi film degli anni 60-'70. Con Il fiore del male, in concorso alla Berlinale, il regista torna al giallo; a quel tipo di giallo dalla ricetta tutta particolare (un po' di Simenon, un po' di Hitchcock, moltissimo Chabrol) dove a contare, più della domanda "chi ha ucciso chi?" sono i legami di sangue, il contesto sociale, la colpa e la sua trasmissibilità. Il film comincia con un cadavere; poi, fino all'epilogo, tutto s'acquieta in una serie di ritratti familiari osservati con ottica quasi neutra (vedi, ad esempio, una conversazione ripresa attraverso il cristallo di un'auto in marcia). L'intrigo ruota intorno a tre generazioni di una famiglia della buona borghesia di Bordeaux. La decana, zia Line (Susanne Flon, straordinaria), è l'anziana figlia di un collaborazionista morto di morte violenta. Sua nipote Anne (Nathalie Baye), in corsa per le elezioni municipali, è vedova e risposata con Gérard; i rispettivi figli di primo letto, Michèle e Francois, si amano. Come in ogni famiglia chabroliana che si rispetti, ci sono di mezzo omicidi e rapporti para-incestuosi. Però il vecchio regista è troppo saggio per lanciarsi in invettive o tirate moraleggianti: tanto più pungente perché condotta dall'interno della stessa classe che mette in rappresentazione, la critica al vetriolo dell'etica borghese - o della sua assenza - è suggerita per tocchi d'osservazione, a partire dall'apparente normalità di un modo di vita decoroso e ritualizzato, dove nulla sembra accadere (e dove nulla, omicidio incluso, cambia le cose). Come diceun personaggio "il tempo non esiste, è un perpetuo presente". Eppure il disagio dello spettatore cresce progressivamente, man mano che i sepolcri imbiancati si scoperchiano rivelando il vero contenuto.
Da La Repubblica, 14 febbraio 2003
di Roberto Nepoti, 14 febbraio 2003