Irene Bignardi
La Repubblica
"Si prega di non gettare cadaveri", annuncia un cartello ai margini di una strada. Sembrerebbe una gag di Woody Allen. Ci troviamo invece a Medellin, dove si svolge La Virgen de los Sicarios, che porta sullo schermo un romanzo autobiografico dello scrittore colombiano Fernando Vallejo. E non si ride davvero: gente che si spara sulla pubblica via in pieno giorno, polizia inesistente, violenza pervasiva, fuochi d'artificio sulla città per festeggiare l'arrivo negli Usa di un carico di droga, ragazzini pronti a vendersi a ogni cantone, gente che fuma crack in chiesa. Ma è così paradossale ed estrema la storia che Barbet Schroeder racconta, così volutamente "oggettivo" il punto di osservazione morale, così deliberatamente distaccato da ogni valutazione critica il tono del racconto che lo spettatore è ugualmente tentato di ridere: boom, si sarebbe detto a scuola, quando Vallejo, che oltre alla storia originale firma la sceneggiatura, enuncia la sua morale nicciano/celiniana da pochi soldi. Una vicenda così estrema avrebbe beneficiato da un registro più grottesco, o meno partecipato e sentenzioso. Vallejo, invece, si prende sul serio. Incarnato da German Jaramillo, ritorna dopo trent'anni a Medellin. Per morire, dichiara. Invece s'innamora di un sedicenne dalla pistola facile, lo accoglie in casa, lo coccola, cerca di insegnargli ad amare la Callas e Verne anziché il rock e i fumetti, e lo vede morire stecchito dai suoi colleghi. Dopo una pausa di riflessione, ecco un nuovo amore, un altro sicario minorenne. Non andrà meglio. Né va benissimo per lo spettatore, che non riesce a credere alla verità psicologica di questa storia: d'accordo essere cinici e rassegnati, ma alla terza sparatoria per strada non vi sembra il caso di cambiar aria? E al terzo signore che il vostro moroso fa fuori?
Da La Repubblica, 7 settembre 2000
di Irene Bignardi, 7 settembre 2000